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“Il più lurido dei pronomi”
Scrive Gadda ne “La cognizione del dolore” che “l’io è il più lurido dei pronomi”. Secondo la Neoavanguardia bisognava “ridurre l’io”. In questi ultimi anni si è andati troppo oltre: la critica letteraria propone la rimozione dell’io lirico. Già per Rimbaud io è un altro e il poeta è quel “pezzo di legno che diventa violino”, mentre per Nietzsche l’io è una convenzione grammaticale. Insomma per dirla alla Pirandello siamo uno, nessuno e centomila. Ritengo che la proposta della rimozione dell’io lirico sia una reazione spropositata, eccessiva alla cosiddetta ipertrofia dell’io, presente in molti poeti, veri o presunti, dell’attuale comunità letteraria. I critici molto probabilmente la sparano grossa, perché la loro è una controffensiva all’autobiografismo smodato di oggi, a un esercito di acapisti dell’express your self a tutti i costi. Probabilmente i critici chiedono 100 per ottenere 50. Però va tenuto presente che anche il diarismo di molti è un modo per preservare e difendere la propria individualità o di quel poco che resta dall’omologazione di massa. E questa è una giustificazione davvero legittima dell’autobiografismo. Giocoforza, ne va preso atto. Non solo ma come ci sono i rischi del troppo io, ci sono i rischi del troppo noi: basta ricordare i gruppi patologici violenti esistiti ed esistenti, così come quelle forme di collettivismo degenere, che hanno portato a dittature di ogni tipo. Perché poi devono per forza di cose in poesia avere la meglio gli oggetti, gli altri, il mondo quando essa dà anche tanti ottimi frutti con il ripiegamento interiore? Prima ancora che critica letteraria questa è politica bella e buona. Di più: questo è settarismo ideologico antiquato.
Ipertrofia dell’io e personalità
Un conto inoltre è l’io equilibrato, armonioso e un conto è l’io patologico, nevrotico o psicotico, vanitoso, egoriferito, narcisista, egotico. Capisco che molti critici non siano terapeuti, ma bisognerebbe un minimo saper distinguere. La poesia può essere intesa anche come un test proiettivo di personalità. E se la cosiddetta ipertrofia dell’io non fosse dovuta a una precisa scelta stilistica? Se dietro a questa presunta, apparente scelta stilistica si celasse solo una patologia di molti? È un’ipotesi da non scartare. Personalmente ritengo che la poesia troppo diaristica e autocentrata sia dovuta più precisamente a tanti poeti, veri o presunti, che scelgono di fare autodiagnosi e autoterapia con la loro scrittura, invece di curarsi, quando dovrebbero più responsabilmente essere seguiti da un terapeuta (e non c’è niente di male ad andare da un terapeuta). Kafka scriveva che tra l’io e il mondo bisogna sempre scegliere il mondo. Personalmente ritengo che privilegiare l’io o il mondo dipenda molto dalla personalità di base dell’autore, dalla sua estroversione o introversione, dal suo vissuto.
Perché l’io deve essere negativo per forza?
Però perché considerare l’io come qualcosa di dispregiativo, di negativo, di deleterio? Non è forse anche grazie all’io che il genere umano è approdato a tutte le sue conquiste spirituali, psicologiche, filosofiche? La psicologia come scienza non nasce forse da Wundt, che utilizzava come metodo d’indagine l’introspezione? L’amore forse non è soprattutto un fenomeno di proiezione di sé sulla persona amata e di introiezione della persona amata in sé e cosa sono l’introiezione e la proiezione se non meccanismi di difesa dell’io secondo Freud? Senza l’io perciò potremmo concludere che non esisterebbe l’amore e senza l’amore la razza umana si estinguerebbe. Inoltre l’io, come ci insegna la psicologia, è soprattutto un tramite, un ponte, un filtro, un’interfaccia tra l’inconscio e il mondo. La psicologia dell’io di Hartmann, Sullivan e della Freud ci insegna che l’io è una parte psichica in cui regnano meno conflitti rispetto all’inconscio e al Super-Ego. L’io, come ci insegna la psicoanalisi, è una conquista, è consapevolezza, è razionalità, è un approdo, è il segno di un’evoluzione. In principio nella nostra vita regna sovrano l’Es, l’inconscio. La psicoterapia ci aiuta a rendere consce cose inconsce. In ogni vita umana non si fa altro che riportare alla luce aspetti inconsci. La stessa persona di 70 anni in questo senso, se non risente troppo del declino cognitivo, ha acquisito più maturità e consapevolezza esistenziale, perché sa cose di sé stessa che non sapeva e non aveva capito a 20 anni. Questa è chiamata saggezza. E tutto ciò lo dobbiamo all’io, alla nostra parte più cosciente. C’è quindi troppo io nella nostra poesia contemporanea? Forse, probabilmente. Troppi parlano delle loro paturnie ed effemeridi, con il risultato di finire con delle lagne, facendo i resoconti delle loro sfighe, che di solito a pochi interessano. Un poeta dovrebbe al contrario essere universale. Ma essere universale può essere un merito ma anche una fortuna. Per essere universali ci vuole talento, forse genio, ma ci vuole anche la fortuna che nella propria storia, nella propria esperienza, nel proprio disagio, nelle proprie emozioni gli altri si riconoscano e si rispecchino. È sempre grazie all’io che gli artisti aprono le porte all’inconscio. La scrittura automatica dei surrealisti e dei futuristi era innanzitutto una scelta deliberata del loro io. Moravia scriveva che nella scrittura è l’Es che parla. Però senza ombra di dubbio è l’io che lo fa parlare, che gli dà la parola. Non si può mettere tra parentesi l’io. È solo una finzione. È solo un artificio. Finisce così che ogni dichiarazione programmatica di intenti di molti artisti viene sempre disattesa. Dico io, per fortuna.
Per fortuna la rimozione dell’io lirico spesso rimane solo teoria
Ci sono critici che teorizzano la rimozione dell’io lirico e poi quando scrivono romanzi e poesie parlano soprattutto di loro stessi. Forse la teoria vale solo per gli altri e loro si concedono grandi licenze poetiche. Va bene criticare la poesia con troppo io, ma bisognerebbe anche chiedersi cosa sarebbe la poesia senza io. Sarebbe solo inconscio e mondo. Oppure sarebbe una poesia con quel piccolissimo residuo di io, che censura e vigila sull’inconscio, e, croce o delizia, è ineliminabile per chiunque. Significherebbe essere in balia soprattutto del caos dell’inconscio e del mondo. E poi bisognerebbe chiedersi cosa sarebbe della poesia di tutta la storia umana se alla Dickinson, a Leopardi, a Whitman, a Pessoa, a Michelstaedter (tanto per fare i primi 5 nomi che mi vengono in mente) avessero parlato di rimozione dell’io lirico e la critica avesse condannato l’introspezione. A onor del vero è che ci sono io degni di nota, alcuni addirittura memorabili e molti altri da non considerare. Ci sono anche io ipertrofici, titanici, ossessivi, esasperati ed esasperanti che sono geniali. Delle opere bisogna soprattutto vedere il consenso generale e il risultato estetico.
Sono possibili altre forme di poesia oggi?
Forse qualcuno penserà che per aggirare le paludi dell’io bisogna per forza di cose ritornare a Omero, Virgilio, Dante. Ma trovatemi un contemporaneo non manierista di questi grandi geni che riesca a fare poesia epica, mitopoietica o catabatica in modo originale oggi. Io non ne conosco, scusate la mia ignoranza. Forse la verità è che indietro non si torna e che non ci sono più le premesse per fare quei generi di poesie. Non solo ma da che mondo è mondo la poesia occidentale è soprattutto interiorità, autoconoscenza. Non ci si può snaturare. Un poeta che rifiuta questa tradizione millenaria si snatura. Il sogno dei critici è una poesia completa, a 360 gradi, che colga tutte le sfaccettature del reale (io, mondo, Super-Ego, inconscio, subpersonalità fittizie, rapporto con Dio, con la persona amata, etc etc), ma questa poesia onnicomprensiva non esiste in un solo autore, perché non è cosa umana, non è impresa umana. Probabilmente la critica vuole, imponendo questo suo diktat della rimozione dell’io lirico, essere compensativa, vuole ridurre questo squilibrio, determinato da troppi poeti neolirici, veri o presunti, alcuni dei quali si guardano troppo il loro ombelico.
L’eterogenesi dei fini
La realtà è che, come sosteneva Zanzotto, in poesia prevale sempre l’eterogenesi dei fini, si sa sempre quel che si cerca ma mai quel che si trova. Accade così che c’è chi parla degli altri per parlare di sé alla fine e chi parla di sé e finisce per parlare degli altri e agli altri. In fondo perché la critica letteraria non condanna centinaia di poesie stucchevoli, sdolcinate, retoriche, ipocrite sui migranti, che vengono scritte solo per dare una bella immagine di sé, per farsi belli agli occhi del mondo? Lo stesso poeta veneto riteneva che in poesia c’è molto da scartare, perché è difficile trovare “il ramo d’oro”. E naturalmente l’autocensura, le correzioni, i tagli e le aggiunte non sono forse una scelta deliberata dell’io? Ancora una volta l’io. In matematica si usa dire: come volevasi dimostrare.