Prima di tutto ciò che caratterizza questi versi è l’apparente semplicità, che non si tramuta mai in banalità. Essere semplici in poesia è allo stesso tempo un rischio e una scommessa al mondo d’oggi. Per alcuni critici austeri essere semplici in poesia significa osare l’inosabile. Alcuni addetti ai lavori vedono nella semplicità un’eccessiva semplificazione. Non tutti infatti capiscono la necessità di “sfrondare”, di evitare orpelli inutili perché solamente decorativi. Per quanto riguarda l’apparente linearità di un testo rimando inoltre al saggio di Alfonso Berardinelli “La poesia verso la prosa”, in cui il critico sostiene che chiarezza e oscurità sono “concetti relativi”.
Capuozzo a ogni modo sa essere comunicativo senza ricorrere alla faciloneria del sentimentalismo e dello sdilinquimento. È comunicativo, pur rimanendo lirico. In questa poesia non ci sono descrizioni paesaggistiche, né evocazioni. Non c’è la ricerca estetica fine a sé stessa ma un fare poetico che mira all’essenziale, alla sostanza, senza rinunciare a ciò che è aulico. La sua poesia è difficilmente etichettabile; non è poesia di ricerca, né propriamente poesia neolirica; il battere e il levare si alternano; Capuozzo non è un poeta d’avanguardia, né di retroguardia. Ricerca un linguaggio piano, basato sulla medietà senza mai essere medio, avendo al tempo stesso dignità letteraria e accessibilità.
La sua comunicatività non è solo una scelta stilistica, ma deve essere intesa come partecipazione e come condivisione (si pensi a proposito all’etimologia del verbo comunicare). Il linguaggio diretto è anche una scelta di vita, ovvero la missione di stare con gli altri con una coscienza permeata di religiosità autentica, indipendentemente dal fatto che il poeta si professi credente o meno: la sua è una religiosità laica e non c’è in lui mai una contraddizione di termini. C’è a mio modesto avviso un’espressività non comune in ogni sua parola. Non ci sono effusioni, né sdolcinatezza, ma il realismo concreto, tangibile di un uomo che conosce gli uomini e il mondo.
Capuozzo non istiga alla lacrima facile: scrive a ciglio asciutto. E per scrivere a ciglio asciutto non intendo solamente non cercare di far commuovere, ma anche non essere poeti della scissione e del vuoto interiore. Non c’è neanche compiacimento per l’astrazione. È invece la semplicità di questa poesia che può far scaturire nel lettore delle risonanze e delle vibrazioni emotive. Il poeta non usa parole difficili, ricercate; il linguaggio non è mai forbito. Da questo si desume subito che non vuole essere un autore elitario e snob.
C’è chi in poesia lancia messaggi esoterici per pochi eletti e poi si lamenta di non essere capito. Il poeta in questa raccolta non si atteggia. Non diffonde messaggi cifrati, criptici. Il poeta sa bene che anche non volendo in poesia un segno rimanda comunque sempre a un altro segno. Pur avendo capacità verbali e concettuali, si pone come un uomo comune, che vuole parlare agli uomini comuni. Non si rivolge ai soli intellettuali. Capuozzo, pur con le dovute differenze, sta nel mondo esattamente come Emily Dickinson, che scriveva di essere “nessuno” e che era un “grande peso essere qualcuno”.
Capuozzo vuole essere capito da tutti, anche da chi non legge abitualmente libri di poesia, e ci riesce, così come è efficace e pregnante nel cogliere nel vivo l’essere umano: questo risultato non è da tutti.
Non c’è paura di quello che potrebbe sembrare lo straniero nei suoi componimenti. Non c’è diffidenza, né un minimo d’odio. Il poeta non avverte il rischio insito nell’accoglienza, né frequenta bassifondi per essere ispirato poeticamente (anche perché così facendo si porrebbe in un mordi e fuggi privo di senso, in una partecipazione estemporanea privilegiata, che Orwell definiva “stare nel ventre della balena”): ciò è segno inequivocabile di apertura mentale e senso di vera fratellanza.
A chi dice che gli stranieri rubano la donna e il lavoro agli italiani, lui risponde così, rivolgendosi ai cosiddetti immigrati: “la mia donna è la tua donna/ i miei figli sono i tuoi figli”: la condivisione e la partecipazione umana sono totalizzanti e vanno al di là della semplice tolleranza (intesa dai più come sopportazione per quieto vivere) e della solidarietà intrisa di pietismo perbenista.
Per Capuozzo non esistono stranieri, perché siamo tutti cittadini del mondo e appartenenti alla razza umana, e lo fa intendere chiaramente senza mai fare propaganda politica. La sua non è una scelta ideologica ma prima di tutto empatica e perciò umana. Vede nei cosiddetti ultimi il volto di Cristo. È questo in fondo il primo passo culturale decisivo per l’integrazione. Capuozzo non distingue tra io e gli altri, tra noi e loro, perché non ci sono confini per lui tra la sua pelle e la pelle altrui. Nei suoi versi ci sono ossimori, che esprimono le contraddizioni e le ambiguità dell’essere umano.
Ci sono anche gli affetti, declinati in vari modi, con appena accennate le ambivalenze emotive, le conflittualità interpersonali e interiori, perché essere nel mondo e vivere con gli altri manifesta quotidianamente delle difficoltà. Veniamo ora alla sua umiltà, che non è un basso profilo di facciata ma una posizione autoriale e umana, un atteggiamento mentale dimesso e genuino. Non vuole insegnare niente a nessuno, né giudicare nessuno.
Il suo non è uno sguardo di sottecchi, né un cipiglio. Il suo sguardo non va dall’alto al basso con protervia e senso di superiorità, ma al contrario va dal basso all’alto, verso il cielo, aprendosi talvolta al trascendente, nonostante le difficoltà, i dubbi, il travaglio di ogni credente. Ricordiamo che l’umiltà è secondo molte religioni la disposizione d’animo migliore per indagare sé stessi e ricercare la verità. In questa poesia infine il deus sive natura spinoziano diventa deus absconditus (“Dio è in noi”). L’autore vede nella quotidianità, seppur alienata, e nella pratica umana le tracce nascoste del divino. E il cerchio alla fine si chiude.
DIO
Dio è nello sguardo che vede,
nel sapere che ignora
nella luce del mattino
e nel cinguettio del passero,
nel volo della rondine
e nella disperata fuga della blatta;
celato nel buio antro del lombrico.
Dio è in noi,
opprime, deride,
violenta, uccide
e gioisce sulle labbra di un bimbo.
Dio è nei colori dell’iride
e riflette il manto riluttante del ratto,
s’ascolta nei suoni del vento
e s’implora nell’ora della tormenta.
Dio è nel crogiuolo della vanità umana,
ci spoglia al sole
e veste di seta le carni.
Dio è nell’armonioso canto dell’usignolo
e ci parla col silenzio dei morti.
STRANIERO
La mano alzata
e logora era la carne,
ma nel pugno stringevi il bicchiere,
magica sfera di velati ricordi.
Riflessi di anime lontane
ove s’agitano neri mantelli,
celanti verdi vallate, vicoli,
strade e piccole case imbiancate
dal grigiore della nostra esistenza.
Frugale pasto consumato
nell’ira di chi ti vuole ramingo.
Ti ho guardato straniero.
Viaggiavi a ritroso nel tempo,
lasciandoti indietro le illusioni.
La tua donna è la mia donna,
i miei figli sono tuoi figli,
candide tracce
partorite dalla miseria:
frutti lasciati marcire in un coccio di vetro.
Eri altrove e ammiravi ricchezze,
ma erano solo briciole sparse
che distratto
hai raccolto nell’azzurro dello sguardo.
Era un niente!
Un poco del nulla
per ridarti un sorriso
sfumato dal giorno di saperti polacco.