Che fine ha fatto il futuro? – riflessioni attuali di Marc Augé

Recensione di Simona Spadaro

Una decina d’anni dopo dalla prima è uscita la seconda edizione di questo interessantissimo testo, scritto dal celebre antropologo Marc Augé. Una riproposta significativa in tempi come questi a pochi mesi dalla proclamazione istituzionalizzata di ondata pandemica, in un momento di crisi globale, di stati d’animo generalizzati e condivisi caratterizzati dal caos, ansia e disillusione.

Che fine ha fatto il futuro?, un interrogativo disarmante, espressione spontanea di un sentimento comune, disillusione collettiva ed affermazione chiara di non ritrovarsi proiettati, di percepirsi sempre più “fuori dal tempo”. Se ieri si viveva con i piedi ben piantati per terra radicati nella propria dimensione e le scelte individuali riflettevano pertinenza storica e disegnavano percorsi di crescita aprendosi alle opportunità, oggi è ben evidente che qualcosa è cambiato e sta sempre più cambiando. Si assiste ad uno sprofondare degli assi cronologici, ad uno sfaldarsi di certezze che tutti noi stiamo sperimentando sulla nostra pelle e di cui Marc Augè magistralmente scrive in questo libro all’apparenza sintetico, ma in realtà denso di concetti teorici articolati in una rete di riflessioni filosofiche ed antropologiche volte a catturare le cause più scomode e le questioni più spinose che si nascondono dietro questo sentire comune di “vuoto”. L’antropologo dei “non-luoghi” celebre per le sue considerazione antropologiche sullo spazio, osserva che il “non-tempo” è una questione altrettanto urgente, osservabile e quanto mai allarmante nelle società complesse. Le forme della conoscenza sensibile di Kant – spazio e tempo – continuano ad influenzare inevitabilmente ed enormemente la vita dei singoli e delle società, ma occorre analizzarle da un punto di vista critico e comparativo per comprenderle e descriverle nel pieno della loro problematicità storica e filosofica secondo l’autore.

Augè individua come punto di rottura e di separazione epocale la dimensione inaugurata dalla caduta del muro di Berlino. Dal 1989 si aprì per il mondo una nuova era sociale e politica fortemente caratterizzata dal bombardamento mediatico delle immagini e dell’avvento sempre più incalzante delle tecnologie di comunicazione istantanee. Tutto ciò ha travolto l’uomo comune dentro un vortice esistenziale ed esperienziale al di fuori della sua portata perché – secondo l’antropologo Marc Augè – lo ha sottoposto ai grandi paradossi della contemporaneità. Nella sua tesi il primo paradosso riguarda proprio la storia che sembra dover terminare proprio nel momento in cui ci riguarda tutti come umanità; il secondo paradosso riguarda il tempo individuale in rapporto all’avanzamento tecnologico e scientifico (se quest’ultimo si muove velocemente, il tempo individuale rimane spesso paralizzato nell’incapacità di migliorare). Il terzo ed ultimo paradosso individuato da Augè sta nella sproporzione tra mezzi e fini, poiché se i mezzi a disposizione oggi sono molteplici, i fini, intesi ad esempio come obiettivi politici o ideali da raggiungere sono troppo spesso limitati. L’incapacità di pensare il mondo con una coscienza critica fondata su concetti nuovi ed il semplice riadattamento di presupposti concettuali vecchi nella realtà di oggi, che troppo spesso velocemente e prepotentemente muta (ad esempio dal punto di vista delle trasformazioni tecnologiche, scientifiche, mediatiche e virtuali), ha reso l’umanità sempre più fragile invece che rafforzarla.

Ciò è avvenuto perché troppo spesso si sono perse di vista le finalità di quell’idea mondiale di sviluppo che sempre meno si accosta all’ideale di progresso concretamente perseguito e perseguibile; una riflessione di pasoliniana memoria questa che potrebbe ben spontaneamente riemergere collegandosi alle considerazioni di Marc Augè. Il progresso è una nozione ideale (sociale e politica) in un passaggio elementare nel senso positivo (…), lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico scriveva Pier Paolo Pasolini. Allo stesso modo per Augè è sintomatico che lo sviluppo economico che caratterizza l’epoca della globalizzazione si allontana sempre di più da quell’ideale di progresso reale auspicato proprio perché non coinvolge tutti nello stesso modo. Non esiste equità nella distribuzione di ricchezza ed opportunità aldilà della retorica. L’idea del libero mercato su scala globale ha effettivamente allargato il divario tra paesi ricchi sempre più ricchi e paesi poveri sempre più poveri. L’omologazione verso determinati standard ha annullato e devastato la ricchezza culturale di troppi popoli come aveva già fatto la colonizzazione esasperando ancora di più troppe porzioni di mondo. Augè, antropologo africanista di formazione, rievoca in queste pagine il ricordo del dramma dei popoli colonizzati oggi sottoposti al divario socio economico e culturale della globalizzazione.

Da un’altra prospettiva possiamo osservare il mondo del consumo caratterizzato da un insieme infinito di tecnologie, messe a disposizione dell’uomo comune e sperimentate nell’intimità della propria esistenza. Questa cosmotecnologia denuncia Augè, “è fine a se stessa”. L’uomo comune se ne rende conto eppure, si pone sempre meno domande, si paralizza davanti ai troppi perché. E’ il mondo del consumo che lo ha fagocitato a comprare prima ancora di avvertirne il bisogno, poiché, come denuncia l’autore, è un mondo da consumare, ma non da pensare. Oltre questa paralisi, esiste il movimento incessante della scienza che procede di pari passo con la tecnologia e per quel che riguarda questa dimensione assistiamo secondo l’autore ad un cambiamento di scala: lo stato delle questioni fa parte sempre di più dello stato dei luoghi. Lo scienziato da essere detentore di un sapere considerato un tempo un “sapere duro” lontano dal mondo dell’opinione pubblica e della società, spesso barricato nel suo laboratorio come dentro una torre d’avorio, esce sempre più allo scoperto, divenendo un soggetto mediatico. Seguendo gli innumerevoli dibattiti tra problemi etici e speculazioni possiamo notare come la scienza è entrata nella storia.

Augè antropologicamente tiene costantemente d’occhio lo sguardo sempre più pervasivo dei media: l’impressione di conoscere tutto e male perché così è, visto attraverso i media, il bombardamento di notizie e immagini che articolano spazio e tempo “simbolizzandoli”. Si vive in balia di eventi che paiono segnare ogni volta la fine della storia perché espongono l’umanità davanti ad un baratro con la velocità e la semplificazione di una fiction. Occorre comprendere che oltre lo schermo esiste una realtà, anzi tante realtà, oltre la globalizzazione esiste il locale, quello che conosciamo davvero attraverso i nostri occhi e le nostre vite nel nostro orizzonte spazio-temporale non virtuale. Questo però non significa considerare le culture monadiche e che non esista una fitta rete di influenza degli infiniti mondi che vengono in contatto. La questione più problematica evidenziata dall’autore è che “ci modelliamo su quel che di peggio vi è nella cultura dell’immanenza”. Piuttosto che puntare a chiederci il perché, manifestando quel senso di meraviglia aristotelica proprio dell’umana natura (esplorando il circostante e muovendosi con introspezione) l’uomo della contemporaneità si concentra sul “medesimo”, sulla superficie, su quel che viene proposto tra consumo e sfruttamento.

Il fenomeno cui assistiamo oggi è lo sdradicamento dal tempo; in fondo un fenomeno antico in cui secondo Augè già si riconoscevano i colonizzati di epoche precedenti. Il consumismo, la globalizzazione hanno riprodotto un nuovo standard di tempo a cui tutti devono adattarsi. Le vittime disarmate sono coloro che si ritrovano isolati con un passato “abolito” e un futuro “bloccato”,i profughi, i rifugiati i sans-papiers che per vivere devono abbandonare il loro mondo e adattarsi al nuovo che troppo spesso li opprime.

Ciò da cui sono esclusi è la storia, e non bisogna stupirsi – scrive meravigliosamente Augè in una riga densa di umanità se il rischio di vederli rientrare nella storia per le vie più pericolose e folli non è mai molto lontano.

Viviamo un tempo “mimetico”, è la globalizzazione avanzata: un tempo in cui tutto cerca di sembrare qualcosa “come in un gioco di ri-presentazione”. “La televisione è un mondo esemplare per questo post-modernismo dei poveri “ scrive Augè, alludendo al trionfo dell’ego di massa e allo stesso egocentrismo forsennato che l’uomo comune mette in scena orgogliosamente attraverso i media. Queste sono le disperate conseguenze della ricerca di un senso per re-introdurre la propria storia nella tirannia del presente al fine di riuscire ad intravedere le vie di uscita che presagiscono un domani. Assistiamo ad una divisione del mondo tra chi è dentro le cose e chi ne è tagliato fuori, secondo Augè, ed è una lotta, una sfida umana cercare il proprio sé ed il proprio futuro tra tanta luccicante finzione e tanto annichilente presente.

L’antropologia deve prefiggersi di svelare i giochi di potere e smontare la cosmogonia ossessiva che la tecnologia invasiva tende a produrre nelle società complesse di oggi. Per Augè l’istruzione è una grandissima priorità nell’orizzonte sociale contemporaneo. E’ necessario studiare affinché il mondo non sia più dilaniato dal divario tra chi sa e chi semplicemente consuma. Dopo la paura della fine del mondo (conseguente al rischio atomico dalla guerra fredda in poi) le paure del presente riguardano ecologia e medicina (riscaldamento del pianeta, sfruttamento delle risorse, della vita della natura, degli animali e dell’uomo, nuove pandemie). Tutto si fonde tra mediaticizzazione di immagini crude e spettacolarizzazione del rischio della catastrofe. E’ il tema della “fine della storia” che ricorre nel presente; occorre secondo l’autore prender consapevolezza dei momenti di rottura dal punto di vista storico ed antropologico. L’attualità non procede in modo lineare rispetto alla modernità ed è per questo che Augè è l’antropologo della “sur-modernità”, ovvero dell’analisi riflessiva dei fattori contraddittori che vanno problematicizzati e non dati per scontati, al contrario si tratta di fattori sur-determinati ed influenti. Occorre raggiungere un “sapere come fine” e combattere non solo per la ricchezza ma per un mondo più giusto, esorta Augè, ed è per questo che in ultima analisi propone l’importanza di perseguire “l’utopia dell’educazione”:un ideale di ricerca e scoperta per riacquistare le forze ed affrontare il presente paralizzante in cui siamo finiti. Bisogna ancora credere nell’utopia, forza motrice per ribaltare la situazione di oggi, e nell’educazione, esigenza e percorso individuale e collettivo di rimettersi in gioco, studiare, sapere, immaginare e conoscere.

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