Commento all’incidente di Casal Palocco…

Dopo l’incidente di Casal Palocco, in cui è morto un bambino di soli 5 anni a causa di una challenge di youtuber ventenni a bordo di un Suv Lamborghini noleggiato, molti si sono interrogati a riguardo, molti hanno puntato l’indice sulla pessima gioventù, alcuni hanno dato la colpa alla società, finendo per fare sociologia d’accatto. La responsabilità è individuale. Le colpe sono individuali. Dare la colpa alla società significa assolvere questi cretini, significa dare la colpa a tutti e nessuno, sparare nel mucchio, cadere nel generico. È anche vero però che certi modelli sono altamente diseducativi, ma ci sono anche giovani che fanno volontariato o studiano. Certamente qualcuno potrebbe ravvisare la follia in questi youtuber, ma  non erano folli, perché tutto era finalizzato al profitto e al successo: erano solo ragazzi disturbati, ma capaci d’intendere e di volere; non sarà certamente una perizia psichiatrica a scagionarli. Se uno non è responsabile della sua nevrosi o psicosi, costui è responsabile di non essere andato in cura da un terapeuta, di non aver preso provvedimenti prima del fatto tragico. E se non è responsabile uno psicotico, lo è in gran parte la sua famiglia che non ha chiesto aiuto prima. Nel caso specifico i genitori erano fieri dei loro figli e sapevano benissimo cosa stavano facendo. Non passiamo perciò da un sociologismo di quint’ordine a uno psicologismo buonista e comprensivo che deresponsabolizza quasi totalmente i colpevoli; era solo talmente incosciente il loro comportamento da poterlo definire tout court folle. Questi youtuber con le loro sfide estreme hanno scelto la via più facile per acchiappare like, per avere successo. Però un conto è rischiare la propria incolumità, anche se così c’è una grande incoscienza e uno sprezzo nei confronti del pericolo, e un conto comunque è far rischiare la pelle agli altri. Essere liberi veramente significa saper rispettare il prossimo in tutto e per tutto. Questo è l’abc della convivenza civile, del contratto sociale tra il singolo cittadino e la comunità.  Ognuno è responsabile delle sue azioni e qui nel caso specifico è lampante che non ci sono attenuanti ma solo aggravanti. La cosa che mi ha colpito è che quei giovani hanno continuato a filmare, anche dopo la morte, e hanno detto a caldo, appena saputa la notizia della morte del bambino, di stare calmi, perché avrebbero risarcito economicamente i genitori. Da parte loro non c’è stato alcun rispetto nei confronti della loro vittima. Nei confronti della morte di un bambino di 5 anni da loro causata erano indifferenti. In loro l’anaffettività aveva raggiunto il vertice. D’altronde basta informarsi sulle loro sfide estreme: chi non ha rispetto per la sua vita come fa a rispettare quella altrui? Chi non vuole bene a sé stesso come fa a volere bene agli altri? Ci sono giornalisti e psichiatri che hanno notato che questi giovani hanno perso il senso della realtà. Lo ha dichiarato il professor Ammaniti su Repubblica.  In loro per dirla alla Freud ha prevalso il principio del piacere (la bella vita, il rischio, l’ebbrezza, il consenso, la scarica di dopamina dei like, etc etc) al principio di realtà. In loro non era più ravvisabile il senso del limite quando un modo per fare comunità è proprio avere tutti quanti un senso del limite. Qualsiasi cosa era a loro concessa pur di avere like, follower, sponsorizzazioni e soldi. Tutto andava bene pur di avere successo, pur di svoltare.  In loro non c’era più alcun principio di causalità, nessun nesso causa-effetto. Come se tutto fosse un videogame. Come se non sapessero distinguere il reale dal virtuale, la realtà dalla finzione. A me un’altra cosa che ha sorpreso è la loro stupidità.  Forse pensavano di mettere tutto a tacere, che tutto si sarebbe sistemato, che l’omicidio compiuto non sarebbe assurto alla cronaca nazionale. Invece ora sono veramente famosi ma in modo totalmente negativo e hanno perso follower, sponsorizzazioni, sono indagati per omicidio stradale. Ma quel che mancava a quei giovani era l’umanità,  l’empatia. Quei giovani non riuscivano a percepire la tragedia che avevano causato. Nessuno si è messo le mani nei capelli. Nessuno ha pianto. Erano indifferenti alla tragedia. Era tutto un gioco, una sfida estrema. Poco importa se si metteva a repentaglio le vite altrui. L’importante era il divertimento,  i soldi, la notorietà,  i soldi facili. Non avevano in loro il senso di colpa. Un tempo si diceva: “mettersi una mano sulla coscienza” oppure “fare un esame di coscienza”. Loro quella voce interiore, quella voce di dentro, che si chiama coscienza non l’avevano o l’avevano messa a tacere da tempo. In loro nemmeno l’ombra di un rimorso postumo.  Forse avranno pensato che fosse solo sfortuna, che fosse sfiga, che fosse un incidente di percorso, che il gioco valeva la candela. Forse era un rischio calcolato che avevano messo in conto. Ma se alcuni giovani non sono umani, sono irresponsabili, allora che legislatori e giudici prendano provvedimenti e puniscano giustamente questi criminali, che dovrebbero farsi il carcere, almeno per pagare il fio e riflettere su quello che hanno causato. Non la possono lasciare liscia. Un comportamento incosciente totalmente era diventata una scelta di vita. Forse solo tra qualche anno capiranno veramente cosa hanno fatto. Forse solo tra qualche anno si renderanno veramente conto che la realtà non è un videogame e che gli sbagli si pagano. 

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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