Oggi si dice e si scrive spesso che l’umanesimo è in crisi, che ormai è inutile. Si dice che le facoltà umanistiche producano tanti disoccupati. Si dice che oggi ciò che contano sia l’economia, la scienza, la medicina, la legge, la tecnologia. Insomma non sembra esserci che pochissimo spazio per gli umanisti. Se si aggiunge che gli italiani fanno sempre meno figli e perciò ci sono meno posti per gli insegnanti o che nel giornalismo i dipendenti sono sempre più precari e che l’intelligenza artificiale in futuro toglierà drasticamente posto a psicologi, sociologi, studiosi di scienze umane, giornalisti, operatori di mass media, la situazione è drammatica. Siamo più istruiti di un tempo, ma qualcosa abbiamo perso per strada. Un tempo i contadini analfabeti sapevano a memoria Dante e conoscevano i nomi di tutte le piante. Oggi queste cose le sanno solo i professori di letteratura e di botanica. Ma cos’è la cultura umanistica? Un tempo si indicava con essa la cultura classica e letteraria. Oggi un umanista che si rispetti deve avere un approccio multidisciplinare. Se un tempo Pasolini scriveva che la maggioranza dei critici letterari era provvista della maturità classica, oggi chi si occupa di critica ha spesso un dottorato in italianistica. Ma cosa significa essere persone di cultura? Un tempo si riteneva che fossero esclusivamente persone di cultura gli umanisti. Poi vennero le due culture, descritte da Snow. Ma tutto ciò è anche limitante. Ci sono ottimi manager che hanno ad esempio una grande cultura organizzativa. Un tempo si distingueva tra persone erudite e vere persone di cultura. Qualche anno fa si usava l’espressione “teste d’uovo”: a volte in modo dispregiativo, altre volte per indicare i più grandi esperti. Ma a cosa dovrebbe servire la cultura umanistica? Alcuni affermano che è buona solo per risolvere i cruciverba della Settimana enigmistica. A mio avviso la cultura umanistica dovrebbe servire a fare un’analisi e una sintesi, a migliorare la nostra conoscenza interiore e le nostre capacità espressive, a fare una rielaborazione critica, a dare un’interpretazione del mondo, a vedere il mondo da un’altra prospettiva, a fare collegamenti, a saper ragionare sulle cose. Una volta un mio amico mi disse che leggeva i romanzi di Andrea De Carlo e sosteneva che erano piacevoli ma che non imparava niente da essi. Rimasi interdetto. Provai a citare Tondelli quando scriveva che la letteratura serve a ritestualizzare il nostro mondo. Provai a citare Gadamer, ma non lo convinsi per niente. L’altra mattina sono andato al bar e mi sono messo a parlare di utilità pratica con il titolare. A un certo punto ho risposto: “ci sono molte cose apparentemente inutili in questo mondo, ma se esistono da quando esiste l’uomo, vuol dire che forse inutili non sono o che almeno sono piacevoli e una cosa piacevole non è mai inutile”. Il barista era d’accordo. Deve essere così anche per l’umanesimo in questa società industriale avanzata e tecnologica.
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