Su desiderio e capitalismo, ovvero come smettere di desiderare sia l’unico vero atto rivoluzionario…

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Il capitalismo e il conseguente consumismo fondano tutto sul desiderio che deve diventare bisogno. Il cittadino deve desiderare, produrre, lavorare per soddisfare il suo desiderio. Gli oggetti del desiderio, i canoni, le caratteristiche degli oggetti del desiderio sono imposti dal capitalismo, dal consumismo. Certamente c’è un risicato margine di autodeterminazione, di libertà, di gusto personale, che però anno dopo anno si restringe. È la cosiddetta omologazione di Pasolini, che in una delle sue ultime interviste dichiarava: “Tutti si comportano allo stesso modo. Tutti vogliono le stesse cose”. Ebbene in tutta questa omologazione il potere ammette e concede delle piccole varianti. Sempre per il capitalismo e il consumismo il cittadino deve pensare sempre meno. L’autonomia di pensiero, il senso critico non sono consentiti perché, come dicono: “dove finiremmo se fossimo tutti liberi pensatori?”. Insomma il consumismo va bene, ma il consumerismo o consumo critico, che boicotta le aziende che non si comportano eticamente in modo corretto non deve diffondersi perché il capitalismo si incepperebbe, si perderebbero molti posti di lavoro, ci sarebbe una grave crisi economica. E poi perché pensare? Ricoeur indica Marx, Freud, Nietzsche come maestri del sospetto. Blanchot e poi Roland Barthes si perdono nello spazio neutro e finiscono nel vuoto, nell’assenza. Derrida, come se non bastasse, critica in modo destabilizzante il logocentrismo occidentale. Deleuze e Guattari ci insegnano che siamo macchine desideranti e il desiderio stesso, motore di tutto, diventa filosoficamente senza soggetto, perché il soggetto cartesiano è stato perso per sempre, né oggetto perché indefinito. Insomma abbiamo mille limiti cognitivi, empirici, metafisici, spirituali e il pensiero non può afferrare il Nulla, perché un’alterità fisiologica si frappone sempre tra la mente ed esso, e nemmeno l’infinito, perché possiamo catturare solo il vago, l’indefinito, come ci insegna Leopardi. Epicuro scriveva di una vita felice. Ilaria Gaspari, che ha scritto un libro a riguardo, definisce la felicità un momento puntuale. La felicità per noi occidentali oggi è un istante, un attimo raro, fugace, che arriva spesso casualmente dopo averla cercata a lungo invano, infruttuosamente. La religiosità occidentale è spesso perbenismo, bigottismo, dogmatismo. E l’etica? I religiosi stessi talvolta non danno il buon esempio, vittime delle loro debolezze e dei vizi di quest’epoca. La religiosità occidentale si basa sul senso di colpa e/o sulla vergogna. Le preghiere spesso sono interessate oppure noiose per molti, come gli esercizi spirituali. Oppure ci sono i mistici che recitano centinaia di volte al giorno la stessa preghiera, in attesa di una teofania, che spesso non arriva. Viviamo in un’epoca in cui Dio è morto in noi, in cui è avvenuta la crisi del soggetto, della logica (ormai le logiche disgiuntive hanno messo fortemente in discussione il principio di identità, il principio di non contraddizione). Lo spirito? Non sappiamo se esiste, così come l’aldilà e Dio, mentre i piaceri carnali sono certezza. Le ricerche di sessuologia e psicologia rivelano che nel corso della giornata rimuginiamo continuamente le nostre fantasie erotiche. Oh certamente qualcosa resta dello spirito, vero o presunto! Qui da noi “non si può non dirsi cristiani”, come scriveva Croce. Restano i rimorsi dopo una vita gaudente, resta il pentimento tardivo. Un piccolo residuo resta ed è la nostra coscienza che rimorde, quell’atavico, ancestrale senso di colpa, che abbiamo interiorizzato da bambini: è la nostra voce interiore, il nostro vero daimon cristiano prima ancora che socratico. Ma l’Occidente è kantiano: il pensiero ha un orizzonte conoscitivo oltre a cui non si può andare, il noumeno non può essere intuito. Ma se il noumeno non può essere intuito, invece la molteplicità fenomenica può essere vissuta, goduta, esperita pienamente. Il desiderio da soddisfare qui e ora e vissuto fenomenicamente, materialisticamente diventa il fine ultimo a cui tendere. Come scrivevano Gaber e Luporini, oggi si può tutto, si può desiderare tutto, si può fare tutto, abbiamo tutte le libertà individuali, ma non si può avere la libertà di pensare. Gli unici pensieri sono rimasti i desideri, i modi di soddisfare questi desideri, gli escamotage per soddisfare questi desideri senza avere riprovazione sociale o senza rimetterci troppo economicamente, facendo sempre una continua analisi costi/benefici. Se tra pensiero, fede, metafisica e noi si frappongono molti limiti, ecco invece che il desiderio può essere sconfinato e quasi sempre legittimo. Ecco allora che già nel Medioevo di Dante Sardanapalo mostra ciò che in camera si può. Ecco allora “Le 120 giornate di Sodoma e Gomorra” di Sade. Ecco allora Salò di Pasolini. Il desiderio non ha limiti e non deve avere limiti. Il desiderio deve essere sempre appagato. E se il macropotere delle lobbies economiche e finanziarie, delle multinazionali è senza volto, apparentemente astratto e intangibile, ecco allora che molti diventano prigionieri del micropotere proprio o altrui, descritto da Foucault: ecco allora in parole povere il compromesso/ricatto sessuale per avere un posto di lavoro, con l’autoassoluzione da entrambe le parti che così è sempre stato fatto e che così fanno tutto e tutti e chi biasima ciò è un moralista invidioso, che non ha potere per fare ciò, ma che farebbe esattamente la stessa cosa se ne avesse potere. Ecco allora che il desiderio proprio o del proprio o della propria partner deve essere no limits e realizzato. E se una parte ha dei limiti, delle inibizioni, ebbene queste devono essere superate. Poco importa se la slave o il cuckold soffrono di disturbi psichiatrici o di una patologica dipendenza affettiva, se l’amore è tossico o se è pura ossessione: il desiderio deve essere sempre soddisfatto. Ecco quindi i mariti cuckold. Ecco allora i contratti sessuali, come in “Cinquanta sfumature di grigio”. A proposito del rapporto sadomasochistico tra una giovane vigilessa uccisa e il suo amante indagato per l’omicidio l’avvocato difensore dichiara: “Nella vita sessuale gli adulti possono fare quello che vogliono”. La censura morale, la morale sessuale cattolica sono ormai datate e antiquate. Il Super-Ego deve essere sfoltito, annullato per quanto riguarda il sesso. Insomma ecco allora un valore fondante della nostra società occidentale: la libertà sessuale, un’arma di distrazione di massa, un appagamento momentaneo, l’unica vera catarsi psicofisica a cui aspirare, invece di cercare l’utopico e faticosissimo Nirvana. Ma siamo veramente liberi di desiderare o ci è imposto? Se il nostro desiderio è inconscio e mimetico e se la società, i mass media (anche la pornografia online fa parte di Internet, che è un nuovo media) e se il nostro inconscio è sempre più colonizzato da queste forze in gioco, così pressanti, siamo veramente liberi di desiderare? Se Vasco Rossi canta che noi non sappiamo più se quello che abbiamo in testa lo abbiamo pensato noi oppure no, allo stesso modo verrebbe da chiedersi se il desiderio è davvero nostro oppure no. Molto probabilmente no. Il nostro desiderio fa parte dell’ordine del desiderio della società. E la libertà del soddisfacimento dei nostri desideri è tale solo perché consentita dalla società e dal potere. Siamo davvero liberi di desiderare oppure siamo schiavi del nostro desiderio o di quello altrui? Auden negli Shorts scriveva che la pornografia è noiosa perché tutti sanno quelli poche cose che tra esseri umani si possono fare carnalmente. Céline in “Morte a credito” scriveva che nel sesso c’è sempre a imparare, anche in età matura. Chi aveva ragione? E il desiderio è natura o cultura? Adamo e Eva ne sapevano quanto noi oppure noi ci siamo spinti oltre? Un tempo c’era chi desiderava un mondo migliore, una palingenesi o la rivoluzione, insomma un vero cambiamento. Ma siamo coscienze infelici: noi schiavi vorremmo la rivoluzione per diventare padroni e abbiamo gli stessi desideri dei padroni. Da questa logica padrone/servo non se ne esce, a meno che non si arrivi a pensare che l’unico atto rivoluzionario, almeno interiore, è non desiderare più niente, ovvero scegliere la via buddista. Oggi invece noi uomini comuni bisogna desiderare il consentito (e sessualmente è tutto consentito, se si rispetta la legge) e sperare di essere desiderati. Ma gli oggetti dei nostri desideri hanno le caratteristiche, le sembianze, rappresentate e veicolate dai media, dalla cultura, dal potere. E anche Sade e Pasolini fanno parte della nostra cultura, della parte più profonda di noi stessi. E se Karl Kraus scriveva che le perversioni sono metafore dell’amore, ebbene queste metafore oggi non sono più quelle che creiamo noi stessi, ma quelle del linguaggio della cultura occidentale perché il nostro desiderio è inscritto in essa. Tutto ciò che desideriamo, ormai è già stato desiderato, rappresentato, veicolato dalla nostra cultura occidentale. Il sesso dovrebbe essere libertà di espressione e diventa una gabbia di acciaio, ricordando Max Weber. Ma questa apparente e transitoria libertà talvolta ci rende felici perché è l’unica via di fuga, l’unica evasione, che ci è concessa. D’altronde cosa speravate? Il sesso oggi è fisiologia, gioco, conformismo, avendo perduto ormai sia la carica trasgressiva ed emancipatoria degli anni settanta che la cifra trascendente di un tempo. E se il deprecabile Evola scrisse “La metafisica del sesso”, oggi si può constatare amaramente che la metafisica del sesso è in una grave crisi, così come qui da noi è in crisi irrimediabile tutta la metafisica.

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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