Indice dei contenuti
Razza, cultura, guerra e violenza.
È sempre un mondo distopico e post-apocalittico? – Discorsi antropologici
Origine del concetto di razza
Il termine razza ha una storia relativamente recente, l’etimologia è incerta e lo si trova usato a partire dal Cinquecento per indicare una discendenza, un lignaggio o un gruppo di parentela. Ma solo nel XIX secolo il termine ha assunto l’attuale significato – un gruppo umano caratterizzato da specificità sia somatiche che intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e trasmesse per via ereditaria. La nozione di razza si afferma nell’Ottocento come strumento concettuale di una riflessione sull’origine genere umano, in cui il linguaggio scientifico si sostituisce progressivamente – anche se non senza conflitti – a quello religioso; e, dall’altra parte, come il fulcro di una concezione etico- politica dei rapporti tra Occidente e il resto del mondo che ha nel colonialismo il suo correlato pratico. La diffusione del termine “razza” fa dunque un tutt’uno con quello delle dottrine razziste, che intorno alla metà dell’Ottocento vengono ampiamente elaborate in Europa e negli Stati Uniti. La più celebre è probabilmente quella del francese conte di Gobineau (1816-1882) che nel 1856 pubblica: “Il saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”. Gobineau ritiene che la razza bianca, che ha creato una civiltà e una morale superiore, in virtù del suo stesso successo sia minacciata dagli incroci con le altre razze, che ne contaminano e impoveriscono il patrimonio genetico (Dei, F. 2020, Antropologia culturale).
Le razze nella letteratura
La letteratura si è occupata molto del discorso razze, prendiamo a esempio tutta la saga di Harry Potter che come impianto narrativo ha le avventure del giovane mago e dei suoi amici che combattono l’oscuro mago Lord Voldemort. Nella saga i protagonisti affrontano l’impensabile con coraggio, forti del legame che li unisce e l’amore per la giustizia, tenuti saldi dal concetto dell’amore eterno nel tempo come ideale. I personaggi non vacillano nemmeno per un istante neanche quando uno di loro, Hermione Granger, con fare dispregiativo, viene accusata dai maghi purosangue di essere una mezzosangue poiché viene da un’unione di Babbani, termine che nella saga indica gli umani, quindi non degna di far parte della “casta” dei maghi.
Anche nella saga degli Shadowhunters, si parla di sangue impuro dei Nascosti che sono delle creature soprannaturali che abitano il mondo delle ombre e sono in parte umani e in parte demoni e che quindi non hanno il diritto di vivere in mezzo al resto della popolazione.
Cultura in antropologia
Anche il concetto cosiddetto scientifico di cultura si sviluppa ed entra nell’uso nella seconda metà dell’Ottocento, contemporaneamente all’affermarsi dell’antropologia culturale come autonoma disciplina di studi. Gli antropologi intendono per cultura, non solo gli “alti” prodotti dell’intelletto, come arte, letteratura o scienze, ma l’insieme di tutte quelle pratiche, usi, consuetudini e conoscenze, per quanto banali e quotidiane, che una comunità umana possiede e attraverso le quali si adatta all’ambiente e regola le proprie relazioni sociali. Gli antropologi ottocenteschi, sono tutti in qualche misura influenzati dalle teorie razziste: tuttavia essi tengono fermo il presupposto della fondamentale unità intellettuale dell’intero genere umano. L’evoluzione culturale è nella loro prospettiva il prolungamento di quella biologica, si sostituisce progressivamente – anche se mai del tutto – a essa nel determinare le caratteristiche dei gruppi umani, le loro modalità di sviluppo e differenziazione.
La memoria in antropologia
E che cosa conserva la cultura se non la memoria? In antropologia la memoria non è solo un “oggetto” di studio come tanti altri: è invece una componente costitutiva delle fonti più importanti, in qualsiasi campo di studio. Le storie di vita, le testimonianze, le fonti orali offrono conoscenze mediate dal filtro della memoria; e molti dei fenomeni sociali su cui si appunta l’attenzione dell’antropologia – riti, cerimonie, simboli, luoghi pubblici, oggetti rappresentativi – possono essere considerati, forme di memoria collettiva (Dei, F. 2020, Antropologia culturale).
La memoria, come ben si sa è oggetto di studi psicologici. Miller ha elaborato la famosa legge del magico numero “sette, più o meno due” – legge di Miller –, secondo la quale gli oggetti che possiamo trattenere nella memoria a breve termine sono circa 7 (+ o – 2).
La memoria a lungo termine viene paragonata invece a un hard disk, ma qui il discorso è lungo e non è questo “il luogo” in cui parlarne.
La violenza di massa del Novecento
La caratteristica più spettacolare e inquietante della storia del Novecento è la violenza di massa. Il secolo che ha visto la decolonizzazione e la globalizzazione, l’emancipazione femminile, uno sviluppo scientifico e tecnologico senza precedenti, un miglioramento – sia pure non uniforme – del tenore di vita e dei livelli di istruzione, è stato anche il secolo delle tenebre. Dai massacri dei popoli indigeni alle guerre mondiali, dallo Shoah ai genocidi del Ruanda e della ex Jugoslavia, dalla rappresentazione politica alle varie forme di pulizia etnica: la violenza si è scatenata su livelli quantitativi fino ad allora impensabili, e in forme storicamente inediti, che hanno cambiato il nostro modo di pensare l’etica e la politica. Una trattazione a sé merita il problema della violenza di massa, che nelle sue varie manifestazioni ripropone l’interrogativo radicale formulato da Primo Levi “Se questo è un uomo”. Vale a dire un cruciale – forse, il cruciale – problema antropologico (Dei, F. 2020, Antropologia culturale).