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Come ho scoperto Bertrand Russell
Quando morì la zia zitella di mia madre alla veneranda età di 90 anni (era nata nel 1901, era sopravvissuta alla spagnola, aveva visto le due guerre, aveva visto tutto il Novecento) io e mia madre andammo a sistemare tutte le cose che aveva lasciato nel suo appartamento, una casa popolare al Villaggio Piaggio. Erano i primi anni ’90. Io ero ventenne. C’erano tante cianfrusaglie ma anche oggetti interessanti.
Non avrei mai pensato di trovare cose degne di nota. Invece c’erano e poi dovevo avere considerazione di esse perché erano testimonianza di una vita. Rispettare quelle cose significava rispettare la memoria di una defunta. C’era in bella mostra sul suo comodino un quaderno con le citazioni di grandi pensatori sui vari aspetti della vita e sul senso della vita. Era un piccolo lascito intellettuale per i familiari.
C’erano anche su alcune mensole i libri che le aveva lasciato mio nonno materno, morto negli anni ’60. Mi hanno detto che era un tipo stravagante, un idealista. Manteneva una sua dignità per quanto morì povero scannato: dava lezioni private ai ragazzi del quartiere senza farsi pagare. Era anche ateo, ma si convertì pochi giorni prima di morire. Amava conversare con il prete, anche se avevano visioni del mondo diametralmente opposte. Politicamente era un tipo non inquadrabile in tempi in cui tutto era bianco o nero e non c’erano aree di grigio né sfumature.
Tra questi volumi, tutti polverosi e malandati, c’erano anche libri all’avanguardia per i tempi in cui era vissuto, come la condotta Kinsey sulla sessualità degli americani e molte opere di Bertrand Russell. Non vennero buttati via. Li presi e li portai a casa mia.
Avevo letto una pagina di sfuggita nel manuale di filosofia del liceo di Dario Antiseri su Russell. Era un breve cenno e lo avevo anche letto distrattamente. Ma Russell come figura mi incuriosiva. Prima di tutto era un personaggio singolare, anticonvenzionale, anticonformista: libertario nelle idee e nell’amore, insomma uno libero. Mi affascinava il fatto che fosse sempre ripreso in fotografia con la pipa in mano da anziano, segno che il fumo non gli aveva fatto male. Poi trovai in una libreria di volumi usati un’opera dove erano raccolti i suoi carteggi con i suoi familiari e i maggiori intellettuali della sua epoca. Quindi per non farmi mancare niente un pomeriggio mi recai a Pisa e trovai in una libreria in edizione economica un Mammut su Russell della Newton Compton, in cui si trovavano molte sue opere. Dovete sapere che fino a tre decenni fa se uno voleva acquistare l’opera omnia di un filosofo o di uno scrittore doveva spendere molto, comprando i Meridiani Mondadori o i Classici Bompiani. Con i Mammut, ancora oggi in vendita, il prezzo era molto più a buon mercato, anche se allora questi volumi avevano un difetto, ovvero si “scollavano” facilmente, cosa che con la nuova edizione della Newton Compton non accade più (e perciò consiglio caldamente di visitare il sito della casa editrice, fare delle ricerche online, scegliere i Mammut più interessanti e acquistarli).
Russell e la teoria della relatività
Infine qualche anno fa comprai online la sua opera in cui spiegava la teoria della relatività a tutti. Cosa c’è da ricordare a riguardo? Che Einstein fu l’unico a capire che ciò che avevano scoperto con l’interferometro, ovvero che l’etere non esistesse, non era un fallimento della fisica, ma solo la constatazione di fatto che la relatività galileiana non valeva per la luce, che la luce aveva velocità costante.
Fino ad allora valevano i principi che la velocità fosse uguale allo spazio diviso il tempo e che dipendesse dell’osservatore (un uomo su una sponda che osserva una barca sul fiume controcorrente dovrà fare la sottrazione tra le due velocità, se la barca è a favore di corrente invece dovrà fare la somma: questa è la relatività galileiana, ma si potrebbe fare l’esempio anche con la macchina o il treno in corsa).
Ebbene tutto ciò Russell lo spiega in modo accessibile ai più, dimostrandosi un grande divulgatore scientifico. Montale scriveva che non sono la curvatura dello spazio, la quarta dimensione o il tempo relativo a doverci preoccupare, ma il fatto che la verità sia a portata di mano, eppure ci sfugge come un’anguilla.
L’antinomia delle classi e il paradosso del barbiere di Russell
Russell fu anche un matematico di prim’ordine. Scoprì un paradosso della matematica. L’antinomia delle classi consiste nel chiedersi se un insieme contenga o meno sé stesso. Per quanto si possano fare sottili distinguo tra la sua antinomia e il suo paradosso del barbiere entrambi sono dei circoli viziosi della logica, dei cul de sac, dei vicoli senza uscita, che misero sotto scacco la matematica di allora.
Tutto si basa sull’autoreferenzialità, sul soggetto che si autopredica; sono simili al paradosso del mentitore. Basta dire “io sto mentendo” per far rimanere interdetto l’interlocutore. La Treccani spiega in questo modo il paradosso del barbiere di Russell:
R. ideò nel 1918 il cosiddetto paradosso del barbiere: in un villaggio c’è un solo barbiere il quale ha ricevuto l’ordine di radere tutti e solo coloro che non si radono da soli; il paradosso consiste nel chiedersi se il barbiere rada o meno sé stesso. Se il barbiere rade sé stesso allora non può radersi per l’ordine che ha ricevuto; se egli non rade sé stesso allora, per lo stesso motivo, deve radersi. In realtà, il paradosso del barbiere non conduce a una vera e propria contraddizione, ma evidenzia l’incongruenza dell’ordine ricevuto che, pur apparendo come plausibile, non può essere eseguito.
Il tacchino induttivista
Russell fu anche un grande logico. Si pensi a come evidenziò i limiti dell’induzione con il suo esempio del tacchino induttivista, a cui danno sempre da mangiare ogni giorno, lui crede che gli diano da mangiare anche durante le feste e invece lo ammazzano per mangiarlo.
Poi naturalmente verrà il circolo di Vienna e quindi Popper a spiegare l’asimmetria logica tra verificazione e falsificazione (secondo cui basta una sola smentita per mettere in crisi una teoria, anche se essa prima ha avuto mille conferme). Ma bastava già aver compreso bene il tacchino induttivista per non formulare l’errato principio di verificazione.
Il rapporto con Wittgenstein
Russell insegnò al Trinity College, dove ebbe per allievo Wittgenstein. Il loro sodalizio intellettuale fu fecondo, ma si incrinò quando Wittgenstein nel Tractatus attribuì importanza al mistico. Russell era troppo razionale per seguirlo su questa strada. Wittgenstein poi nel 1961 nei “Quaderni” chiarirà il suo atteggiamento nei confronti del misticismo: «L’impulso al Mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato. Certo non resta allora più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta». Russell aveva troppa fiducia in questo senso nella logica deduttiva, nella ragione; aveva fiducia per dirla col titolo di un suo libro nella “saggezza dell’Occidente”.
Russell, un anarchico a suo modo, anche se non in senso stretto
Russell non fu solo un matematico, un filosofo, un epistemologo, ma anche un anarchico pacifista. Fu un attivista politico. Per quanto politicamente fu un socialista nella maturità, che guardava anche agli illuministi, va detto che per la sua apertura, il suo spirito antidogmatico, il suo ateismo, la sua necessità di libertà, la sua capacità di mettersi in discussione, la sua voglia di dialogo può considerarsi a tutto tondo un anarchico nel senso lato del termine, senza tirarlo assolutamente per la giacchetta, come si suol dire.
Andò anche in carcere per le sue battaglie. Per la capacità di pensare e per la coerenza fu il simbolo della libertà di espressione allora. Non solo ma Russell ebbe il grande merito di rendere popolare in tutto il mondo la sua filosofia e la stessa filosofia. Russell è un intellettuale di primo piano con cui è necessario confrontarsi. Talvolta rileggendolo un poco in qua e in là mi sembra che non ci sia cosa o idea che non abbia pensato; mi sembra che abbia pensato tutto il pensabile.
Non era quindi la classica testa d’uovo chiusa nella sua torre eburnea, isolato dal mondo. Russell non si nascondeva, non si rifugiava dal mondo, ma lo affrontava a muso duro con tutte le sue brutture e ingiustizie. Levava sempre alta la sua voce contro i soprusi del potere. I suoi libri inoltre sono leggibilissimi. Russell era chiaro e comprensibile, ancora prima che Popper istituisse la chiarezza espositiva come un dovere dell’intellettuale.
Mentre in Italia crociani, neoheideggeriani, marxisti, hegeliani spaccavano il capello in quattro, combattevano dialetticamente, talvolta su questioni di lana caprina, perdendo di vista l’essenziale, Russell affrontava tutti i problemi più importanti del mondo e della sua epoca. Russell si dimostrò anche maestro di vita per “Elogio dell’ozio”, in cui descriveva quante persone fossero dipendenti dal lavoro ed egoiste, e “La conquista della felicità”, in cui prendeva in rassegna tutte le cause di infelicità dell’uomo contemporaneo (ancora oggi un capolavoro e attuale, nonostante certi termini: oggi l’infelicità byroniana si chiamerebbe depressione endogena semplicemente).
Da questo punto di vista dovrebbe essere preso come un esempio perché sapeva scrivere per tutti e parlare a tutti. Sarebbe un’impresa riassumere tutte le sue opere, cercare di individuare una ipotetica evoluzione del suo pensiero. Russell aveva un’opinione pertinente, un pensiero competente su tutto.
Russell, ovvero un grande pensatore dimenticato
Da una parte è un peccato che un grande pensatore come lui non sia insegnato nemmeno a strappi e bocconi nei licei. Ma non dimentichiamoci che negli anni ’70 in alcuni licei gli insegnanti non facevano studiare Marx e Nietzsche perché considerati dei cattivi maestri, dei sovversivi. Forse è anche meglio così.
Forse è meglio che il pensiero di Russell non venga semplificato, banalizzato, irregimentato, istituzionalizzato, incanalato in quelli che vengono considerati i giusti binari. Forse è più comodo per molti non scalfire lo stereotipo dell’anarchico eversivo che mette bombe. Russell avrebbe molto da insegnare a tutti. In Occidente non si può educare veramente alla pace senza conoscere un minimo il suo pensiero, anche se essere pacifisti è molto difficile e c’è chi dice che un pacifista quando dimostra una piccola forma di aggressività è un guerrafondaio: in questo senso essere pacifisti è un compito molto arduo, un’aspirazione difficile da mettere in pratica.
Eppure Russell è lì con le sue opere e la sua biografia a dimostrare che tutto ciò è possibile, che l’obiettivo non è irraggiungibile. Nel 1955 firmò anche con Einstein un manifesto per il disarmo nucleare e la pace nel mondo, che fu sottoscritto dai maggiori intellettuali dell’epoca. Russell sapeva indicare la via maestra all’umanità del suo tempo e probabilmente anche a quella di oggi, visto e considerato che molti problemi sono rimasti irrisolti. Forse in vita divenne anche troppo popolare, troppo conosciuto, troppo di moda. Ma fu veramente compreso tutto il suo pensiero così magmatico? Abbracciare tutto il suo pensiero, la sua filosofia è difficile perché in esse ci sono umanesimo e scienza, ma anche cultura e controcultura.
Però va bene anche leggerlo un poco in qua e in là, saggiare la profondità e le intuizioni, conoscerlo per sommi capi e in estrema sintesi.
Con Russell non si sbaglia mai: dove si pesca si pesca sempre bene, è sempre illuminante, non ci sono cadute di stile né momenti di impasse. Probabilmente quello che si impara meglio dal filosofo è proprio il senso della libertà interiore oltre chiaramente alla libertà di pensiero.
Forse dava fastidio il suo pensiero?
Russell dava fastidio in vita, anche se alcuni lo celebrarono, e diede fastidio da morto; infatti venne dimenticato, messo ai margini. Difficilmente viene ricordato oggi. Eppure fu un autore memorabile perché fu grande filosofo senza perdersi nelle filosofie irrazionaliste e fu grande matematico che non si perse nei meandri del positivismo, dello scientismo. Già allora scienza e umanesimo non parlavano più la stessa lingua, ma lui le seppe coniugarli entrambi, mettendoli tutti e due sullo stesso piano, cosa più unica che rara. Fu un tuttologo che alla sua epoca sapeva tutto senza finire mai nello specialismo. Sapeva sempre andare al nocciolo dei problemi, fare analisi e sintesi. Ma perché dava noia? Perché era un libero pensatore pronto a non fare sconti a nessuno.
Come lui stesso dichiarò in un’intervista: “Gli uomini temono il pensiero più di qualsiasi cosa al mondo, più della rovina, più della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile. Il pensiero non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite e alle abitudini confortevoli. Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità, noncurante dell’approvata saggezza dell’età. Il pensiero può guardare nel fondo dell’abisso e non avere timore. Ma se il pensiero diventa proprietà di molti e non privilegio di pochi, dobbiamo finirla con la paura”.