Due parole su poesia, poet* tra vanagloria, difficoltà e forza di andare avanti. Vale veramente la pena di farsi il culo per la poesia?

Ho sognato città invisibili,

dove risiedevano solo artisti.

C’erano saltimbanchi, poeti, attori,

pittori, acrobati, contorsionisti, trampolieri,

mimi, ormai prossimi a firmare l’armistizio

con la realtà. E quando la loro penna

stava scrivendo ho sentito i singhiozzi

del cielo. Ho visto stelle cadere. Fermarsi

comete. Le maree ribellarsi alla luna.

Le strade senza nome battezzarsi l’un l’altra.

Ma avevano avuto fortuna. L’inchiostro era

simpatico. Si rinfrancarono gli artisti.

Si rinfrancò la luna.

(Davide Morelli -1994)

Sulla credulità personale e gli autoinganni

Non si dovrebbe abusare della credulità popolare ma nemmeno della propria credulità personale. Va bene credere in sé stessi, avere una sufficiente autostima; va bene credere in quello che si fa, ma non bisognerebbe mai credere troppo in sé stessi. Mai riempirsi la testa di troppi autoinganni, anche se non è facile. Le nostre convinzioni, anche i nostri convincimenti più profondi e più radicati, devono trovare risposte e conferme nel mondo esterno: altrimenti tutto è inutile. E il mondo esterno è veramente quello là fuori, fatto di tantissima gente ostile e indifferente alla poesia, non solo i quattro amici del circolo letterario o i dieci o cento o mille sodali online. C’è una canzone cantata da Ron in cui dice: “Raccontare dei successi e dei fischi non parlarne mai”. È quello che accade nel caso di molt* poet*, ver*, aspiranti, sedicenti, etc etc. Tutt* a vantarsi dell’ultimo premio letterario vinto, che naturalmente era molto importante, e tacere totalmente sulle decine o centinaia di premi che non hanno vinto e di cui hanno pagato una quota di partecipazione o una tassa di lettura. Tutt* a inorgoglirsi della pubblicazione a pagamento in una piccola casa editrice e magari tacere che tutte le grandi case editrici avevano rifiutato il manoscritto. Tutt* a farsi ritrarre dal fotografo di grido perché farsi un selfie è da dilettanti. Tutt* a raccontare di quanti letterat* famos* hanno conosciuto. Tutt* a raccontare quale maestr* autorevole e geniale hanno avuto. Tutt* a vantarsi che le proprie poesie sono state tradotte in varie lingue, ma se non le leggevano neanche gli italiani, figuriamoci gli stranieri!?!? Tutti a vantarsi della propria web reputation quando basterebbe fare un giro su Google Trends per constatare che nessuno fa ricerche digitando quel  nome è perciò si è sempre degli anonim*. Tutt* a citare su quante riviste e su quanti literary blog sono presenti. Questi, a occhio e croce, sono i gagliardetti, le mostrine della comunità poetica. Ma un conto è avere una certa considerazione di sé stessi. Un altro conto e un altro paio di maniche è la vanagloria. Purtroppo più la gente, cosiddetta  comune, se ne frega e si disinteressa della poesia, meno gli autori e le autrici vengono riconosciuti e più costoro finiscono per cadere nel complesso di superiorità,  nella smania di grandezza, dimenticandosi che ogni persona, dotta o ignorante, ha una sua metafisica e che le cose importanti della vita, quelle che restano, le sanno tutti a menadito.

Le difficoltà quotidiane di fare poesia oggi

Rifugiarsi nell’élitarismo, nello snobismo è un passo falso, un rimedio peggiore del male. Bisogna confrontarsi con gli altri, se il prezzo non è troppo alto, se non si viene presi in giro, se insomma ci sono le condizioni sufficienti per confrontarsi. I/le Poet* sono oltremodo bisognos* di calore, di riscontri, ma, diciamo, soprattutto di consensi. Cercano sempre di allargare la loro rete di conoscenze, che dovrebbe diventare nel migliore dei casi una rete amicale, che a sua volta dovrebbe essere solidale e fungere nei momenti più  bui da salvavita. Ma mi chiedo talvolta quanta verità o quanta ipocrisia ci stanno dietro un attestato di stima o un complimento? Difficile dirlo. I/le poet* cercano in modo spasmodico di abusare della credulità altrui. Chi ha un minimo di autorevolezza viene lisciato sempre perché può fare sempre comodo, perché può tornare sempre utile. E chi sgomita per affermarsi, chi è emergente, va sempre rispettato perché potrebbe rompere le uova nel paniere domani. D’altronde coltivare il nostro orticello significa coltivare ciascuno a suo modo anche  le nostre illusioni; solo che talvolta le illusioni, le ambizioni, i sogni (chiamateli come vi pare) crescono troppo, aumentano vertiginosamente,  a dismisura. A volte ci si crea giorno dopo giorno un nostro piccolo mondo fittizio, non si guarda in faccia la realtà. Ci sono alcun* grand* poet* che sono o erano disadattat* nella società. A volte alcun* si rifugiano nella comunità letteraria. Molto spesso si rifugiano nel proprio mondo di illusioni. A poet *, ver* o presunt*  manca spesso l’esame di realtà. Ma è il pregio e il difetto dei/lle poet*, che sono fisiologicamente grandi sognator*. I/le poet* talvolta si odiano tra di loro. Basta un niente, una piccola scintilla perché divampi l’incendio. Come dice un vecchio proberbio napoletano: con troppi galli nel pollaio non viene mai giorno. È bene saperlo che la poesia va presa unicamente come passione, solo i furbastr* ingannevoli riescono a lucrare su, molto spesso il talento non paga, quasi sempre la poesia non ripaga e ridà indietro pochissimo. Non vi venga in mente neanche per un secondo che io odi la poesia è i/le poet*.

Tutto rema contro, ma I/le poet* devono cercare l’autoperfezionamento e non darsi la zappa sui piedi

La colpa dello stato comatoso in cui versa la poesia italiana è colpa degli altri italiani soprattutto, di chi non legge mai un libro di poesia. Ma sono stanco di combattere con i mulini a vento. Ritengo che sia più facile invece migliorare i/le poet*, che ciò sia molto più fattibile e pratico, che costoro possano perfezionarsi e correggere alcuni comportamenti, mentre sarebbe utopico per me cercare di criticare una gran massa di persone e la loro mentalità comune. Secondo me il più grave difetto della poesia italiana è quello di arroccarsi sulle solite posizioni, difendersi a oltranza dalla maggioranza, dedicarsi a pochi e buoni, che è già di per sé un’autolimitazione, una restrizione che porta all’autoreferenzialità, se non alla chiusura, all’odore stantio e per finire all’asfissia. E poi si sa come vanno le cose, che anche i/le poet* più affermat* ci restano male se hanno scarso pubblico alle presentazioni dei loro libri o alle loro conferenze e cercano nei pochi giorni precedenti all’evento di fare carte false perché le persone vengano lì. Ci vorrebbe meno esclusivismo e più considerazione da parte dei/lle poet* e meno indifferenza e più interesse da parte degli appassionati. Ma tutto ciò non avverrà mai perché i/le poet* affermat* vogliono che sia riconosciuta la loro importanza e la loro qualità elevata, mentre gli appassionati vorrebbero a loro volta essere riconosciuti perché molti scrivono poesie. La cosa migliore sarebbe non crearsi aspettative, che poi verranno sempre deluse. Non so chi prende in giro chi, chi è il più saggio e chi è il più fesso, se a conti fatti si diverte di più l’aspirante poeta che manda i propri versi a riviste e critici per vedere se gli rispondono senza spendere niente  o l’autore “affermato” che ha speso migliaia e migliaia di euro a pubblicare e viaggiare per l’Italia per diffondere il proprio verbo e cercare di avere una gloria, che poi di fatto non avrà: il gioco vale veramente la candela? Insomma la domanda è la seguente: vale veramente la pena farsi il culo per la poesia? Il problema di alcun* è che chiedono troppo alla poesia, agli altri, a sé stessi, legati ancora a un’idea troppo antiquata di poesia, di letteratura, di successo letterario, di carriera letteraria. Sarebbe bene non chiedere niente alla poesia perché gli italiani danno addosso ai poet* ver* e celebrano fals* poet*.  

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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