È Pasqua. La Coop è chiusa. Sono spenti tutti i lampioni del supermercato. Le vie sono deserte. Ci sono solo io. È sera inoltrata. Vado fuori a camminare. Nel quartiere Sozzifanti non c’è anima viva. È nuvoloso. Il cielo, carico di nubi, promette pioggia. Mi incammino verso la zona industriale, che è anch’essa deserta. Tira una leggera brezza. Alzo il bavero. Fa un poco freddo. Mi metto le mani nelle tasche del giacchetto. Ogni tanto qualche macchina in lontananza corre sulla circonvallazione. Sento una musica a circa duecento metri. È una festa privata. Ascolto la canzone della Carrà, che fa: “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”. Ragazzi e ragazze cantano in coro, urlano, scherzano; percepisco gli echi delle loro risate. E io sono solo.
Vado al bar per prendere un caffè. Cammino più di un chilometro. Non c’è nessuno come al solito. Il bar è gestito da una coppia giovane di cinesi molto gentili. Si chiama bar Giulia ed è in via Roma a Pontedera. Io vado sempre lì. C’è un ottimo rapporto qualità-prezzo. Il clima è informale. La mattina era aperto. Ho bevuto lì un cappuccino. Ma quando arrivo lì trovo già chiuso. Hanno chiuso in anticipo, perché non c’era nessun cliente e non facevano affari. Molto probabilmente è andata così. Ho già parlato con loro a riguardo, perché è successa anche la stessa cosa per Natale, e mi hanno detto che per certe feste non c’è giro. E io sono solo.
Ritorno vicino a casa. Faccio un giro della Coop. Mi imbatto in un uomo di mezza età, di qualche anno più grande di me. Porta a spasso il cane. Non ci salutiamo e ci ignoriamo. Vado oltre. Proseguo. Trovo parcheggiata una macchina. C’è dentro una coppia, forse clandestina, perché in questo parcheggio si danno appuntamento le coppie clandestine. Sono in cerca d’intimità. Stanno facendo l’amore. Lui nasconde le stelle all’amata. Lei si accorge di me con la coda dell’occhio. Si alza. Si ricompone. Io faccio finta di niente. Io ero solo uno sguardo indiscreto. Io ero solo l’uomo che guarda l’amore altrui per un istante. E io sono solo.
Proseguo, cammino. Sempre nel solito parcheggio c’è una ragazza a bordo di una macchina. Ha la portiera aperta. È in minigonna. Passo davanti alla sua macchina. A venti metri un camionista la guarda. Capisco che è già da tempo in corso un gioco di sguardi tra loro. Lei mi dice: “vai a casa da mammina”. Faccio finta di niente. Non penso di conoscerla, ma forse lei mi conosce di vista. Vado proprio a casa. Chiudo tutto con i chiavistelli. Do una doppia mandata. Mi affaccio fuori per un istante. Vedo la ragazza che sale a bordo del camion. E io sono solo. Sono rientrato. Saluto i miei. Mi dicono che domani pioverà a dirotto. Annuisco. Salgo le scale. Mi cambio. Mi metto in pigiama. Mi lavo i denti. Mi corico sul letto, aspettando il sonno. Penso che sarebbe comunque un peccato morire nel sonno e andare all’altro mondo, ammesso e non concesso che esista un altro mondo. Poi oggi leggo una riflessione di Concita De Gregorio, che ama stare sola perché nella sua vita non è mai stata sola. Scrive della solitudine come se fosse un sollievo. Per me la solitudine prolungata che sto vivendo è un prezzo da pagare alla strada impervia che ho scelto. Ho preso la strada non battuta di Frost. Penso che la vita sia come un albero e con gli anni i rami diventano via via sempre più spogli. Penso che la vita sia come un tram e nel tragitto scendono, una fermata dietro l’altra, le persone care e si fa presto a rimanere soli. Penso che talvolta per essere liberi bisogna essere soli. Quindi la solitudine ancora come dazio da pagare. Ma forse la mia solitudine deriva dalla colpa, dal peccato da espiare. Oppure queste sono solo scuse. Sono solo palliativi inutili alla solitudine. Penso che alla fine gli esseri umani non sono mai felici. Non si accontentano mai. Quando hanno tutto e hanno tutti intorno vorrebbero star soli. Quando sono soli vorrebbero avere socialità e amore. E io sono solo.