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Il mare evoca, nell’immaginario collettivo, momenti di tranquillità, di divertimento e di socialità. Eppure, non sempre ha rappresentato un luogo di piacere in cui poter trascorrere le proprie vacanze. Ripercorriamo in breve l’evoluzione della concezione del mare nella storia della mentalità.
La paura del mare
Fino al Settecento il mare, in quanto elemento che sfugge al controllo dell’uomo, era considerato spazio di morte. In virtù di ciò suscitava nell’immaginario popolare suggestioni e timori, espressi con proverbi rimasti in uso ancora oggi: “se vuoi imparare a pregare va per mare”.
L’idea, ereditata dal Medioevo cristiano, del mare come campo di battaglia tra Dio e Satana, si convertì in epoca moderna in immagini simboliche di sciagura, di disordine e di precarietà della vita umana. Addirittura, le popolazioni costiere della Bretagna lo paragonavano a un cavallo imbizzarrito e senza cavaliere quando infuriava.
Il mare in tempesta era spesso associato alla condizione di pazzia nell’uomo, proprio per via dell’impossibilità di riuscire a prevedere e controllare il suo comportamento. Mentre la figura del marinaio, dalla condotta lasciva se non criminale, come nel caso dei pirati, fece sorgere la concezione per cui la furia del mare imperversava in qualità di punizione divina proprio per quei cattivi cristiani sulle imbarcazioni.
Inoltre i litorali, a differenza di oggi, erano scarsamente popolati perché particolarmente esposti, e gli abitanti principali di quei luoghi erano solitamente persone emarginate, come nel caso della città di Fano che nel 1475 emanò una disposizione che obbligava le prostitute a stabilirsi in abitazioni lungo la costa, con la scusante che avrebbero potuto usufruire più facilmente dell’acqua salata per la propria igiene personale. (Paolo Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua. Riti e culture, 2016, p. 159).
La grande onda di Kanagawa – K. Hokusai (1830)
In generale, fino alle applicazioni dell’acciaio e del vapore alla tecnica navale moderna, il mare è a ragione considerato luogo di morte, tanto che i naviganti che riuscivano a raggiungere la destinazione senza incorrere in tempeste e derive, o se, ancor più fortunati, attraccavano alla banchina dopo aver superato indenni un pericoloso fortunale, si recavano subito nei diversi santuari della costa per ringraziare la Madonna (Nostra Signora di Bonaria a Cagliari, la Madonna dell’Arco a Napoli, la Madonna del Monte a Genova), con la certezza di aver espiato i propri peccati, e aver ricevuto per questo la grazia.
A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, però, sorsero anche in Italia i primi stabilimenti per bagni marini, che vennero affidati alla guida di illustri medici. Occorre ricordare la figura del professor Paolo Mantegazza, igienista e senatore del Regno, che sancì definitivamente la moda della villeggiatura al mare, e sfatò la credenza per cui le donne con le mestruazioni non potessero bagnarsi neanche i piedi. Successivamente, nella direzione del centro idroterapico di Rimini, subentrò il fermano Augusto Murri, a cui ancora oggi è intitolato il lungomare riminese, proprio grazie al successo dello stabilimento sotto la sua guida.
Il mare e la morale
Nonostante gli austeri indumenti da bagno, in uso quasi fino all’arrivo del bikini (1935 ca.), ovviamente l’acqua riusciva a far aderire al corpo anche i numerosi strati di tessuto, e quindi a mettere in evidenza le forme e le rotondità procaci delle bagnanti. Se da un lato queste situazioni venivano aspramente giudicate, e si provava ad evitarle consigliando di far spogliare la gente in prossimità della riva, proprio un attimo prima di tuffarsi, dall’altro si faceva leva maliziosamente sull’immagine del corpo femminile per pubblicizzare gli stabilimenti balneari, e attirare così più clientela. La relazione, sempre evocata e mai raffigurata esplicitamente, tra il mare e la nudità femminile trovò espressione concreta nei manifesti della riviera romagnola nel 1925: Giovanni Guerrini realizzò una “sirena incantata” completamente nuda, cullata dalle onde del mare di Cesenatico.
Tintarella di luna
Con l’inizio del Novecento, ormai, a fungere da richiamo non erano più le virtù terapeutiche dell’acqua salata: la villeggiatura al mare acquistò una connotazione edonistica, anche a seguito della “scoperta” tutta italiana della tintarella. Infatti, la valorizzazione dei raggi solari, all’inizio sempre per scopi curativi e solo più tardi per motivi estetici, nacque proprio in Italia, complice la posizione geografica più favorevole rispetto alle cittadine costiere della Gran Bretagna. (P. Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua cit., 2016, pp. 181-182).
Con l’aggiunta poi dello svago, dell’idea della fuga dalla città, e perché no anche della possibile occasione per trovare l’anima gemella, la vacanza al mare conquistò definitivamente la classe borghese e impiegatizia degli anni Trenta e, dopo la pausa della Seconda guerra mondiale, si affermò come costume della società di massa.
Insomma, ecco perché ancora oggi, con la scusa dei benefici terapeutici, ci si abbandona volentieri a momenti rilassanti in riva al mare, molto meglio se in compagnia degli affetti o di un buon libro.