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Il diritto al lavoro
L’ Articolo 4 della Costituzione: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
La critica poco costruttiva che intendo rivolgere al governo attuale, che secondo i dati Istat vanta una crescita del lavoro, è semplice, chiara e pulita: davvero creare posti di lavoro giornalieri, settimanali e contratti a tempo determinato, significa crescita del lavoro?
Il lavoro dovrebbe rendere le persone libere, non schiave. Schiave della perdita del lavoro, schiave dei problemi creati dalla mancanza di una sicurezza economica, schiave di quei lavori che offrono poco e che si deve dare tanto per poter ottenere un esiguo salario. Il lavoro dovrebbe essere una crescita professionale, una soddisfazione personale, qualcosa che faccia sentire l’essere umano, sicuro e seduto su qualcosa di solido, non una poltrona di polvere, costruita dentro un castello di sabbia.
“Arbet macht Frei” tradotto dal tedesco all’italiano: “Il lavoro rende liberi” dopotutto è stato il motto collocato sopra i cancelli di numerosi lager durante la seconda guerra mondiale.
Il futuro del lavoro nel nostro paese
I mercati del lavoro stanno subendo importanti e profonde trasformazioni: la globalizzazione impone alle imprese e alle organizzazioni – sia pubbliche sia private – un continuo aggiornamento per sviluppare e mantenere la competitività. Di conseguenza, gli addetti necessitano di formazione e di riqualificazione; flessibilità e i nuovi stili di vita si espandono in tutti i settori e si sviluppano nuove forme contrattuali soprattutto riguardo ai giovani, alle donne e agli immigrati; inoltre, viene auspicata e perseguita da più parti una maggiore condivisione organizzativa. In tali contesti, di cambiamento e di sviluppo mondiale, la multiculturalità e le diversità possono costituire veri e propri fattori di successo.
Psicologia del lavoro «a cura di» Piergiorgio Argentero, Claudio G. Cortese
Queste sono solo favolette?
È un po’ come tornare indietro, ma forse passi avanti non ne sono stati fatti o almeno quello che abbiamo ottenuto è effimero e poco più di una mera illusione. Marx ed Engels con il “Manifesto del partito comunista” hanno espresso un concetto chiaro che sembra tanto lontano eppure è così vicino, attuale. Il loro concetto che era focalizzato su borghesia e proletariato, (ma non solo) oggi si discosta di tanto dalla situazione attuale? Ci sono nuovi borghesi e nuovi proletari, hanno nomi diversi ma le vesti sono le stesse. Il Manifesto è una storia di lotta di classe, correla il lavoro alla libertà, partito e rivoluzione, capitalismo e comunismo, sfruttamento e proprietà privata, non sono questi i crucci, i legacci che incatenano la società e non fanno della politica una scienza? Ora come allora.
Un po’ di dati oggettivi sull’occupazione: l’informativa della Cgil
Come accennato poco sopra, i dati Istat confermano una mancanza di qualità. Che cosa vuol dire questo? Se affidiamo l’incremento del lavoro solo a dati matematici, questi ci mostreranno un incremento del livello occupazionale: 21.000+26.000-33.000 = 14.000
Questi dati fanno riferimento ai mesi rispettivamente di novembre e dicembre. Dati attualissimi. Rispetto a novembre, dicembre ha registrato un accrescimento di ben 14 mila posti di lavoro.
Positivo, no?
No.
Perché? Perché c’è stata una diminuzione dei contratti a tempo indeterminato – meno 33 mila per amor della precisone – , e un’ascesa dei contratti a termine, generando una triste precarietà – più 21 mila – e da quello degli autonomi – più 26 mila –. Ed ecco spiegata la mancanza di qualità.
Dunque il trionfo con cui il governo che si vanta delle statistiche sull’occupazione è solo propaganda.
“Entrando nel dettaglio, quindi, si confermano gli elementi di preoccupazione per il sindacato”, spiega Rossella Marinucci, Cgil nazionale.
(Dati forniti da Collettiva, testata della Cgil)
Il lavoro nel Lazio
Per la regione Lazio, la situazione non si discosta da quella generale. La precarietà e la brevità dei contratti sono il cruccio, il motivo di inquietudine e mal di vivere di molti lavoratori. L’elaborazione Cgil Roma e Lazio su dati sistema delle Comunicazione Obbligatorie aggiornamento Gennaio 2024, parla di “emergenza della precarietà di lavoro”.
Analisi sintetica dei dati:
“Con un così alto tasso di contratti a termine ne deriva che la causa principale dell’interruzione dei contratti di lavoro, con più forza su Roma, sia la scadenza stessa del contratto, anziché altre forme come le dimissioni volontarie o i licenziamenti. I dati anagrafici mostrano una minore partecipazione delle giovani donne under 35 rispetto ai coetanei uomini, che incidono maggiormente sulla loro platea di riferimento. Nella Capitale e nella città Metropolitana il divario è meno forte che nel resto del Lazio, a Roma il divario è di 3 punti percentuali mentre nelle altre province si arriva ai 7 punti percentuali”. (Fonte:Elaborazione Cgil Roma e Lazio su dati sistema delle Comunicazione Obbligatorie aggiornamento Gennaio 2024)
Una panoramica sul mondo lavorativo femminile
“BelleCiao” è una importante piattaforma, nata dalla collaborazione tra la CGIL nazionale, le categorie, e i territori che condividono come oggetto primario e fondamentale quello di cambiare in meglio le condizioni lavorative del mondo femminile, coinvolgendo le donne nella vita politica, sociale ed economica del paese.
Purtroppo, le informazioni sulla piattaforma “BelleCiao”, non sono incoraggianti. La cultura patriarcale e sessista – ahinoi – è radicata nel nostro paese, come gramigna ed erbacce che infestano un giardino. Ma la cosa spaventosa è che le destre vogliono riconsegnare all’Italia, le donne alla loro natura irrevocabile: il ruolo di “regina del focolare”. “Roba” da brividi, non siamo nel 2024, in un’Italia antifascista? In quale mondo dispotico vogliamo tornare?
BelleCiao, scrive così:
“I dati parlano chiaro: esiste ancora un importante divario occupazionale, salariale e nelle progressioni di carriera che continua a penalizzare le donne. Molestie e violenze sul lavoro e in ambito familiare non accennano ad arrestarsi. Di fronte a questo quadro, tutt’altro che positivo, la CGIL si pone l’obiettivo di determinare un netto cambiamento culturale e sostanziale, per un definitivo superamento delle tante disuguaglianze che penalizzano le donne”.
Situazione lavorativa in Italia e politiche del lavoro
Ai nostri giorni il mondo del lavoro è quanto mai diviso e parcellizzato e nel dibattito politico ed economico la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori registra una mancanza di ascolto. In Italia manca da alcuni lustri una coerente politica industriale e si sono accumulati troppi ritardi rispetto al panorama dei Paesi europei più avanzati: il sindacato è un corpo intermedio che esercita un fondamentale ruolo di rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro e la sfida che dobbiamo portare avanti è quella di ridurre le disuguaglianze nei luoghi di lavoro e di estendere un sistema di tutele a tutte le nuove figure professionali che ne sono escluse.
Emiliano Lelli – Segretario generale Rieti-Roma est Flai -Cgil ( categoria agro- alimentaristi) e Segretario territoriale Rieti Filctem Cgil ( categoria chimici)
Il problema del lavoro e diritti dei lavoratori
Il lavoro è un bene fondamentale per l’essere umano. Il lavoro nobilita l’uomo, questo è un proverbio attribuito a uno scienziato famoso: Charles Darwin che vuole sottolineare quanto l’essere umano attraverso l’occupazione, può far crescere il proprio livello personale, accedendo a un rango elevato. Non vi sono fonti certe che questo proverbio sia stato con coniato dal famoso scienziato. Il lavoro ci permette di avere relazioni sociali, una vita libera e dignitosa.
Il lavoro è al contempo una benedizione e una maledizione. Nella letteratura biblica, è un “luogo” all’interno del quale l’uomo manifesta la sua violenza egoistica di potere e dove si consumano terribili conflitti.
Per la persona, ci sono dei rischi, considerando lo stress a cui è sottoposta? In fondo minare un aspetto così importante della vita ciascuno e cioè il lavoro, è come minare la salute dell’individuo.
È una questione di rischi: stress occupazionale, sindrome del burnout, mobbing
Originariamente l’interesse scientifico riferito al rapporto tra lavoro e benessere si è basato sullo studio dei fattori di rischio di tipo fisico, chimico e biologico in grado di provocare danni alla salute dei lavoratori. Successivamente è stata posta maggiore attenzione alle variabili in grado di incidere sullo stato di benessere psicologico quali stress occupazionale, la sindrome del burnout, il fenomeno del mobbing, la traumatizzazione vicaria e i comportamenti violenti (Piquero, Piquero, Creig e Clipper, 2013; Watt, 2005).
Mayo dimostrò l’influenza della dimensione sui comportamenti lavorativi e affrontò per la prima volta gli effetti sul benessere psicologico del contesto sociale e organizzativo entro cui si svolge l’attività lavorativa. Negli anni successivi la ricerca sì è più specificamente focalizzata sullo studio dei fattori di rischio psicosociale considerati il “quarto fattore di rischio occupazionale” (Ilgen, Swisher, 1989). Da allora, sempre più attenzione è stata rivolta alle variabili in grado di alterare l’integrità psicofisica del lavoratore virgola in quanto riconducibili a un’organizzazione disfunzionale del lavoro (Totterdel, 2005).
Lo stress occupazionale
Il termine stress, che attualmente è entrata a far parte del linguaggio comune e che spesso viene utilizzato in espressione come “sentirsi sotto stress”, ha un’origine etimologica legata all’ambito ingegneristico. Prima ancora che il termine fosse utilizzato nell’accezione di disagio personale faceva infatti riferimento agli effetti subiti dai materiali metallurgici sottoposti a forte pressione. Nella letteratura scientifica, il primo studioso ad aver introdotto il concetto di stress, applicandolo agli esseri viventi, è stato Hans Selye. L’autore, considerato il pioniere degli studi su questo tema, ha dato inizio a questo filone di ricerche ipotizzando un primo modello teorico – definito approccio response-based (Sely, 1983) – In cui lo stress viene identificato nella risposta fisiologica aspecifica manifestata dall’organismo nei confronti di diverse tipologie di stimoli ambientali. Malgrado questo approccio abbia segnato l’inizio di un ricco filone di studi e di ricerche ha fornito una comprensione soltanto parziale del fenomeno in questione: la visione da lui proposta è esclusivamente focalizzata sulle risposte manifestate dall’organismo, mentre non risulta approfondito il fenomeno nel suo complesso.
Cooper, Deve, O’Driscoll, 2001; Favaretto, 1994
Il più attuale e completo modello sullo stress è il transactional approach, ovvero approccio “transazionale” (Lazarus, 1991), che suggerisce come lo stress non sia identificabile con elementi parziali, bensì il risultato di un processo di scambio e di interazione continuo tra individuo e ambiente. […] Occorre, infine, chiarire la distinzione fra stress e concetti a esso correlati: “stress” (l’intero processo transazionale), “stressor” (le situazioni stimolo, potenzialmente in grado di produrre disagio) e “strain” (risposte fisiologiche, psicologiche e comportamentali agli stressor) (Beehr, 1998).
Stressor organizzativi
Inizialmente la ricerca sullo stress occupazionale si è prevalente focalizzata sugli stressor natura fisica, capaci di incidere sul benessere e la produttività delle persone (Totterdel, 2005). Il riferimento è, per esempio, a eccessivi livelli di rumore, temperature insostenibili, esposizioni a vibrazioni elevate, scarsa illuminazione e turno di lavoro prolungati, soprattutto se estesi alle fasce orarie notturne. Successivamente tra gli stressor occupazionali sono state considerate anche le caratteristiche delle attività lavorative, i ruoli organizzativi, le relazioni interpersonali, lo sviluppo di carriera e la relazione fra lavoro e vita extralavorativa (McCoy, Evans, 2005).
Alcuni aspetti connessi al ruolo organizzativo possono infatti rappresentare fattori di stress per i lavoratori (Beehr, Galzer, 2005). Per esempio, l’ambiguità di ruolo, intesa come mancanza di specificità e prevedibilità del proprio lavoro, si associa spesso a elevati livelli di disagio psicologico (Beehr, 1998), così come il conflitto di ruolo, generato da richieste incompatibili all’interno dello stesso ruolo o dalla presenza di differenti ruoli ricoperti dal medesimo individuo, può generare strain psicologico. Il sovraccarico lavorativo, costituito da un eccessivo carico di lavoro e dalla presenza di pressioni temporali, rappresenta un’ulteriore fattore di stress occupazionale.
Anche la scarsa qualità delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro può determinare reazioni psicologiche negative (Newton 1995). Anche lo stile di leadership si configura come una possibile fonte di strain per i lavoratori, in particolare quando è orientato sul compito, eccessivamente punitivo o, ancora, caratterizzato da un atteggiamento passivo di tipo lassaiz-faire da parte dei leader. Harris e Kacmar (2005) hanno rivelato come alcune caratteristiche dello stile gestionale proprio di un’organizzazione possono rappresentare una fonte di strain psicologico, in particolare nei casi di limitato coinvolgimento dei lavoratori all’interno dell’organizzazione. Infine, aspetti legati alle strategie di gestione delle risorse umane, per esempio la presenza di eccessiva burocrazia o la scarsa partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali, possono generare insoddisfazione lavorativa e malessere generalizzato.
Effetti dello stress
Lo stress occupazionale è in grado di produrre effetti negativi a breve e a lungo termine sia sugli individui sia sulle organizzazioni (Jex Crossley, 2005). A livello individuale si hanno principalmente conseguenze sul piano fisiologico, psicologico e comportamentale. In particolare, l’esposizione protratta agli stressor occupazionali può alterare il normale funzionamento del sistema cardiovascolare, le cui risposte fisiopatologiche sono rappresentate da alcuni sintomi, quali l’aumento della pressione arteriosa e del livello ematico di colesterolo, sino all’insorgenza di vere e proprie patologie cardiache. Inoltre, l’esposizione cronica una serie di agenti stressogeni può favorire l’insorgenza di alcune patologie quali il diabete, le sindromi metaboliche e l’obesità.
Sul piano psicologico, i sintomi tipicamente associati allo stress occupazionale sono numerosi, tra cui ansia e disturbi dell’umore (Beehr, 1998). A livello comportamentale, lo strain si associa ad abuso di sostanze l’incremento di azioni sociali negative (Murphy, Cooper, 2000) che possono produrre effetti organizzativi disfunzionali come per esempio la riduzione della produttività aziendale e l’aumento degli infortuni (Jex, Crossley, 2005).
Il burnout
Un rischio di natura psicosociale che attira l’attenzione dei ricercatori è il burnout. Venne originariamente descritto come una sindrome tipica esclusivamente degli operatori impegnati in professioni d’aiuto. Successivamente il burnout venne ridefinito come una più generale crisi tra l’individuo e il proprio lavoro, risultando pertanto potenzialmente estensibile a tutte le categorie professionali (Maslach, Leiter, 1997a; Schaufeli, Leiter, Maslach, Johnson, 1996; Schaufeli, Taris, 2005). In letteratura è possibile rintracciare due differenti orientamenti di studio che identificano il fenomeno come una situazione di Stato oppure una situazione di processo.
- Le definizioni di stato si focalizzano sui sintomi del burnout, che possono essere descritti nella maniera seguente: Esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione professionale.
- Le definizioni di processo descrivono le fasi attraverso cui il burnout si sviluppa, il modello di Edelwich e Brodski (1980), descrive il burnout come un processo articolato nelle seguenti quattro fasi: – Entusiasmo idealistico, caratterizzato da aspettative di successo e di miglioramento del proprio status; – Stagnazione, durante la quale l’operatore percepisce come in certi risultati del proprio impegno; – Frustrazione, in cui predominano sentimenti di impotenza; – Apatia, caratterizzata da una totale chiusura in se stessi con la perdita del desiderio di aiutare gli altri.
Diverse ricerche hanno dimostrato che, nell’insorgenza della sindrome del burnout, sono implicati fattori sia individuali sia organizzativi (Estryn-Béhar et al., 2007). L’attuale tendenza è quella di porre maggiore enfasi su questi ultimi, considerando il burnout come una problematica collettiva, che riguarda l’intero contesto organizzativo, e non il singolo individuo. Per quanto riguarda i fattori individuali, l’insorgenza e gli effetti del burnout dipendono sicuramente dal modo in cui le persone rispondono, in maniera diversa le une dalle altre, alle situazioni stressanti, dalle loro caratteristiche di personalità, dei valori, motivazioni e stili di vita acquisiti, come anche dalla loro vulnerabilità allo stress e dalla capacità di resilienza (Cherniss, 1993; Maslach, 2003; Shirom, 2005). Rispetto ai fattori organizzativi, Leiter e Maslach (2004) hanno individuato sei principali aree di vita lavorativa che possono incidere significativamente sui livelli di burnout:
- Carico di lavoro (dato dalla quantità di tempo e risorse che il soggetto ha a disposizione per portare a termine i propri compiti lavorativi)
- Controllo (relativo al grado di autonomia professionale che la persona è in grado di esercitare nel prendere decisioni sul lavoro)
- Riconoscimento (di natura non solo economica ma anche sociale, che il lavoratore riceve per l’attività svolta)
- Integrazione sociale (data dalla qualità delle relazioni interpersonali con altri al lavoro, intesi come capi, colleghi e collaboratori)
- Equità (ossia il grado in cui il soggetto percepisce che le decisioni aziendali siano prese in maniera trasparente ed equa)
- Valori (intesi come livello di conseguenza tra valori individuali e organizzativi).
Infatti, un buon allineamento tra il singolo e l’organizzazione di appartenenza rispetto ai suoi aspetti può favorire lo sviluppo di buone risorse, tra il cui il capitale psicologico (Laschinger, Grau, 2012), in grado di proteggere le persone dal rischio di sviluppare esiti negativi di salute. In generale, la principale causa del burnout viene oggi identificata nella qualità delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro. Se, infatti, esse possono dal lato rappresentare una potenziale fonte di supporto sociale (Bakker, Demerouti, Euwema, 2005; Cohen, Wills, 1985; Kahn, Byosiere, 1992), d’altra parte ormai ampiamente riconosciuto come esse siano anche in grado di determinare disagio e stress (Grsndey, Dickter, Sin, 2004; Zapf, 2002). Questo risulta particolarmente vero quando le relazioni con colleghi, capi e clienti richiedono un notevole impegno emotivo, portando così a effetti negativi per il benessere delle persone, soprattutto se impegnate in professioni d’aiuto.
Effetti individuali del burnout
Il burnout si manifesta attraverso somatizzazioni di varie natura quali mal di testa, stanchezza, disturbi gastrointestinali e cardiovascolari, deficit a livello immunitario, e manifestazioni psicologiche, quali ansia, irritazione e depressione.
Effetti organizzativi del burnout
Le conseguenze del burnout possono compromettere la qualità delle prestazioni, con conseguenze diminuzione della soddisfazione dei clienti/ utenti per i servizi ricevuti. Insoddisfazione lavorativa, scarso commitment, assenteismo, turnover e intenzioni di lasciare il posto di lavoro sono tra gli effetti più frequentemente rilevati a livello organizzativo.
Mobbing
Il mobbing rientra tra quelli che, in letteratura vengono definiti “comportamenti lavorativi controproduttivi” (counterproductive workplace behaviors, CWBs), ovvero tutti quei comportamenti agiti nei luoghi di lavoro con caratteristiche, per esempio, di aggressione, devianza, ritorsione e vendetta (Spector, Fox, 2010). Nello specifico, il mobbing è stato tradizionalmente classificato come una forma di aggressione (Neuman, Baron, 2005) che però si differenzia da altre forme di comportamenti aggressivi per intensità e frequenza; per quanto riguarda l’intensità, il mobbing può derivare da altre forme – meno gravi – di comportamenti aggressivi, quali quelli incivili che, se non presi in carico per tempo, possono assumere maggiore intensità sfociando appunto, per esempio in mobbing.
Rispetto alla frequenza, il mobbing si caratterizza tipicamente per tratti di continuità e ripetitività che, invece, non sono propri di tutti i tipi di comportamenti aggressivi (Barlett, Barlett, 2011). In generale, il mobbing scaturisce da una situazione di conflittualità in cui una persona gli viene oggetto di azioni persecutorie da parte di uno o più aggressori, con la conseguenza che la vittima, non in grado di reagire adeguatamente, può sviluppare disturbi psicosomatici e dell’umore, e in alcuni casi anche danno alla salute psicofisica. Studi più recenti hanno condotto hanno conoscenza sempre più articolata del fenomeno giungendo alla seguente definizione:
“Mobbing al lavoro significa molestare, offendere, escludere socialmente qualcuno o influenzarne negativamente i compiti lavorativi. Per poter definire mobbing una particolare attività, interazione o processo è necessario che esso si verifichi regolarmente e ripetutamente, per esempio settimanalmente in un periodo di tempo di almeno sei mesi. È un processo progressivo, nel corso del quale una persona si trova a essere in una posizione di inferiorità ed è bersaglio di sistematiche azioni sociali negative. Un conflitto non può essere definito mobbing se l’incidente è un evento isolato, o se le due parti coinvolte nel conflitto possiedono una capacità di difensiva analoga” (Einarsen, Hoel, Cooper, 2003).
Da questa definizione emergono le principali caratteristiche del fenomeno: frequenza, durata, ostilità e squilibrio di potere (Einarsen, Hoel, Cooper, 2011).
(«A cura di» Piergiorgio Argentero, Claudio G. Cortese, Raffaello Cortina Editore, 2016)
Riflessioni per concludere
L’industria moderna ha trasformato la piccola bottega del mastro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di lavoratori concentrate nella fabbrica vengono organizzate come soldati. Come soldati semplici dell’industria vengono posti sotto sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Non sono soltanto servi della classe borghese, dello stato borghese, ogni giorno e ogni ora diventano anche servi della macchina, del sorvegliante e soprattutto dei singoli fabbricanti borghesi. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante quanto più palesemente proclama il profitto come il suo scopo.
Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista
Non si potrebbe questa, se si è credenti, ritenerla una profezia?
A voi la scelta. Sognatori, o mercenari di sogni.