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L’occidente ha un’immagine molto idealizzata delle geisha: si pensa sempre alla bellezza, all’eleganza, alla grazia. Quello che rimane in ombra ma che fa ugualmente parte di quel mondo è la miseria, la crudeltà, le difficoltà. Masuda Sayo ci mostra l’altra faccia della medaglia, ci racconta di come si diventa geisha e di cosa significhi davvero esserlo. La sua storia stringe il cuore e ad esso parla direttamente: da queste pagine sgorga la voce di un’anima bistrattata da tutti che è riuscita a salvarsi solo grazie al suo raccontarsi.
Masuda Sayo
Masuda Sayo nasce nel 1925 in una famiglia, come si può intuire, povera. Da piccolissima fa da bambinaia in una famiglia più ricca della sua, pur essendo ancora lei stessa una bambina. Quando ha circa dodici anni, la madre la vende come geisha alla casa Takenoya. L’apprendistato è duro, la rivalità tra colleghe è inasprita dalle difficoltà quotidiane. Non è prevista alcuna istruzione per queste ragazze; la stessa Masuda imparerà a scrivere, e solo l’alfabeto più semplice, molto tardi: l’ignoranza contribuisce a impoverire delle esistenze già misere.
Dopo il suo debutto come geisha, viene di fatto comprata da un esponente della yakuza, passando così a fare la concubina per un uomo molto più vecchio di lei. Con l’avvento della guerra però le cose cambiano, i tempi si fanno ancora più difficili e per tirare a campare Masuda si ritrova a fare i lavori più disparati, da operaia in una fabbrica a venditrice ambulante.
Nel 1956, in risposta a un concorso indetto da una popolare rivista femminile, Masuda scrive un breve testo sulla propria vita aggiudicandosi il secondo posto. Gli editori Heibonsha la notano e la convincono ad ampliare quel testo fino ad ottenere l’autobiografia che nel 2003 viene tradotta anche in inglese da G. G. Rowley.
Tre anni dopo, apre un ristorante che gestirà per molti anni e che finalmente le darà quella tranquillità che non ha mai avuto in vita sua.
Masuda muore nel 2008 a causa di un cancro al fegato.
Il messaggio di Masuda
Masuda Sayo non è il tipo che si lamenta o che si piange addosso. Non è sotto questa luce che dobbiamo leggere la sua opera. Attraverso queste pagine, e attraverso le stesse azioni di Masuda, uno dei messaggi che ci arrivano più chiaramente è quello rivolto ai genitori. Genitori: non abbandonate a loro stessi i vostri figli! Questo Masuda grida con tutte le sue forze, perché lo ha visto coi suoi occhi e vissuto sulla sua pelle, sa cosa significa e cosa comporta. Bambini messi al mondo con irresponsabilità e abbandonati non potranno che diventare delle creature miserabili, come lo è stata lei, che ha scoperto il suo nome quando era già una ragazza. Come lo erano i figli dei ricchi dei quali si doveva prendere cura lei, che di anni magari ne aveva solo cinque e pensava più alla gran fame che aveva che a tutto il resto.
Probabilmente è per questo che per tutta la vita sente il bisogno di prendersi cura dei più piccoli: se vedeva un bambino piangere per strada non poteva ignorarlo, ammette lei stessa, e si fermava per consolarlo con una storiella o con un dolcetto. Masuda, pur essendo poco istruita, aveva capito benissimo che solo con le dovute cure e con l’amore i bambini sarebbero potuti diventare persone buone che non avrebbero a loro volta causato più sofferenza.
Lo stile del libro
Come si è già detto, Masuda non ha mai frequentato la scuola. Imparò da sola a leggere e scrivere e imparò solo l’alfabeto hiragana, quello cioè più semplice e comune. Sia i suoi editori sia i successivi traduttori hanno voluto lasciare molto del suo stile, per non snaturare una voce tanto pura nella sua semplicità. L’impressione che se ne ha è proprio quella del parlato di una persona del popolo, molto colloquiale e basilare, purtuttavia capace di farsi capire e di farsi ascoltare.
C’è anche molto dell’animo di Masuda in queste righe: quando si arriva alla narrazione di un episodio particolarmente tragico, la voce narrante non si abbandona mai ai toni della tragedia, né enfatizza l’accaduto. Masuda si limita a dirci, anche se lo fa molto chiaramente, cosa è successo, cosa ha provato, e poi con una scrollata di spalle va avanti con la storia così come è andata avanti con la sua vita.
Conclusioni
Non cadiamo nella trappola dell’ambientazione nipponica, non è un libro riservato agli amanti del Giappone. Nonostante tutta la cattiveria e la bruttezza attraverso cui è dovuta passare, Masuda crea qualcosa di universale e di prezioso, alla portata di tutti. Alla fine di tutto, il vero protagonista non è il mondo delle geisha o delle okiya: ciò che è più centrale e che dovrebbe esserlo sempre è l’amore.