Il senso della poesia (citando Bukowski)…

Da bambino cercavo e talvolta trovavo la poesia nelle cose e nelle persone, ma raramente cercavo e trovavo la poesia nelle parole. I versi delle poesie lette per obbligo a scuola non mi dicevano niente o mi dicevano davvero poco. Provavo sensazioni, emozioni, sentimenti che molto malamente sapevo dire o scrivere. La parola scritta non era assolutamente per me una priorità.  A 21 anni la folgorazione: una facoltà occupata per protesta contro l’aumento delle tasse e l’incontro con una ragazza, mia coetanea e figlia di due poeti, che sapeva a memoria le canzoni dei cantautori. Mi innamorai di lei (finì male, ma questa è un’altra storia), però mi innamorai anche della poesia. Presi il vizio, se così si può chiamare, della poesia. Iniziai a scrivere versi. Dopo trent’anni ho perso tutti gli amici d’un tempo, anche quelli che sembravano inseparabili: anche quelli a cui facevo leggere i miei versicoli. Non scrivo più versi da qualche anno.  E mi chiedo adesso a cosa è servito? A niente! Questa è la verità. Sono un semplice autodidatta, un appassionato della poesia contemporanea; ho affinato la mia sensibilità critica ed estetica, mi sono acculturato rispetto ad allora. Certo ho ancora molte lacune da colmare. La poesia è rimasta una passione fine a sé stessa, un passatempo. Gli arrivisti sfegatati, gli integrati possono prendermi in giro. La mia scrittura è inutile. Leggere libri non serve a niente. Riflettere non serve a niente. Un vecchio detto pontederese recita: “un pensiero non paga un debito”. Il mondo è delle persone pratiche. Continuo a cercare la poesia nel mondo, nel mio piccolo mondo di periferia: nello scorcio della campagna toscana vista dal finestrino della macchina, in un’alba gelata, nello sgabbiare di una passante, in quattro chiacchere al bar, in una camminata avvolto nella nebbia. Cerco e trovo la poesia nelle piccole cose quotidiane: lo so che può risultare banale, scontato, ovvio, ma è quello che so fare e mi accontento di questo. Una volta un mio amico mi disse che non voleva conoscere di persona i grandi poeti viventi, perché era sicuro che moltissimi di loro non fossero all’altezza dei loro bei versi. Da una parte Vecchioni in una canzone dedicata ad Alda Merini scrive che “basta poco per essere felici. Basta vivere come le cose che dici”. Dall’altra parte Bukowski scrive che “nessun uomo è forte come le sue idee”. Io cerco un punto di equilibrio tra queste due verità.  I miei vent’anni non ritorneranno più. Quella ragazza è diventata donna, si è sposata, ha fatto figli, è scomparsa dalla mia vita. Le stagioni che mi aspettano, se mi aspettano, non mi riserveranno amori e fortuna: ho 51 anni, il meglio è stato vissuto, deve arrivare la vecchiaia e la morte. Che fine faranno le mie parole? Forse resteranno in alcuni angoli del web poco lette, magari da chi non mi ha conosciuto e forse non saranno nemmeno apprezzate. Ma perché dovrebbero restare le mie parole? Restano forse le parole, i gesti, le emozioni della stragrande maggioranza delle persone alla loro dipartita? Un giorno litigai con un tizio e gli citai Bukowski; lui mi ricordò che Bukowski aveva sempre pagato i propri errori e la sua arte di persona e io no: aveva ragione e forse avrebbe ragione anche oggi. Le poesie non cambiano il mondo: Patrizia Cavalli ce lo ha insegnato sempre. Le mie parole non mi servono oggi a vivere, ad avere amicizie, ad essere amato da una donna. Perché dovrebbero essere lette e ricordate domani? La gloria postuma è solo la pretesa assurda di molti aspiranti poeti. No. Basta leggere l’Ecclesiaste per capire che tutto è vanità. La verità è che ognuno ha i suoi problemi e che io ho anche il lusso di avere diverso tempo libero a disposizione. Non voglio fare pena, non cerco comprensione. Questo è soltanto il resoconto dell’amara realtà e non un tentativo di autocommiserazione. Dovrei vivere, muovermi, viaggiare, essere intraprendente, conoscere gente. Ma ci vorrebbero anche soldi e l’incoscienza, la vitalità di un tempo, che non ci sono più. Finisco così per stare nel mio guscio, nella mia gabbia dorata, nella cosiddetta comfort zone. Il mondo inoltre potrebbe ferirmi e allora io resto tra le mie abitudini, che mi rassicurano. Però io lascio il mio messaggio in bottiglia nell’oceano del web: forse qualcuno leggerà e capirà. A volte nelle molte ore di solitudine in cui sono faccia a faccia con me stesso, con i miei tarli, con il mio vuoto risuonano nella mente alcuni versi di poeti riconosciuti e di altri semisconosciuti. Riecheggiano dentro di me e mi fanno pensare. Qualche volta mi fanno viaggiare con la mente. E poi alcuni snob hanno un bel dire che la poesia non deve essere consolatoria! Sapere che poeti grandissimi sono stati o sono soli, sfortunati e squattrinati mi conforta. Come mi conforta sapere che ci sono poeti che seguono un’altra strada, che trascendono la mentalità comune, che ti indicano altri modi di sentire, di dire, di pensare, di vivere. E allora trovo di nuovo la forza per scrivere, anche se non serve a niente, di lottare con le parole, con le idee, con questo mondo che non mi appartiene.  È troppo poco o è troppo? Non lo so. E mi ripeto che forse è proprio questo il senso della poesia! 

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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