La nostra familiarità con l’altro, è soltanto un’idea?
Il termine comunità ha la stessa radice di “comune” e di “comunicazione”: secondo alcuni etimologi la radice deriverebbe da cum-munia (doveri comuni), secondo altri da cum moenia (mura, fortificazioni comuni). In ogni caso il prefisso cum sottolinea l’aspetto di relazione, di contesto condiviso, di globalità del sistema interattivo che, come affermano molti autori, rappresenta una delle dimensioni più caratteristiche adeguate del concetto di comunità.

Definizione di comunità
La definizione del termine comunità appare complessa anche perché affonda le sue radici in scienze e prospettive diverse, dallo studio psicologico dei piccoli gruppi alla teoria dei sistemi, dall’antropologia culturale alla sociologia. Esistono poi alcune peculiarità nel mondo contemporaneo che contribuiscono a rendere problematico il concetto di comunità. (Francescato D. et al, 2020; Fondamenti di psicologia di comunità).
Sarason (1974, p.157) così definisce il senso di comunità: “La percezione della similarità con gli altri, una riconosciuta interdipendenza con altri, una disponibilità a mantenere questa interdipendenza offrendo o facendo per altri ciò che ci si aspetta da loro, la sensazione di essere parte di una struttura pienamente affidabile e stabile.”
La similarità, che può riscontrarsi in qualunque campo, è quindi l’elemento fondamentale della comunità che viene definita in ogni caso in rapporto con altre e sulla base delle differenze riscontrabili. Altro elemento determinante risulta essere l’esistenza di una interdipendenza, la mutua relazione di necessità tra i membri, con un importante elemento qualitativo: il riconoscimento, l’esplicitazione di questa relazione e la volontà di ammettere e mantenere l’esistenza.
Terzo elemento costitutivo è la disponibilità a dare agli altri, offrire ciò che viene riconosciuto come il necessario. Ultimo elemento è il senso di appartenenza a una struttura stabile e affidabile. Sarason (1974) sostiene inoltre che il senso di comunità può essere inteso sia come un vissuto soggettivo, indicatore di una rete supportiva, sia come una forza coesiva e motivante che agisce all’interno della comunità favorendone il benessere. (Francescato D. et al, 2020; Fondamenti di psicologia di comunità).
Comunità in letteratura
In letteratura molti autori hanno descritto attraverso le storie dei loro personaggi intere comunità, mi viene in mente “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez che ha catturato con l’inchiostro nelle sue pagine, leggende popolari, avventure, amori e personaggi molto forti, al di sopra delle righe come il colonnello Aureliano Buendía che nella storia ha combattuto guerre civili, che fanno riferimento al quadro storico della “Guerra dei Mille giorni” combattuta in Colombia fra Liberali e Conservatori fra il 1899 e il 1902, e il ricordo delle sanguinose repressioni degli scioperi nelle piantagioni di banane.
“Cent’anni di solitudine” racconta di come José Arcadio e Ursula Iguaran hanno fondato il paese di Macondo, assicurandosi una discendenza fatta di figli e nipoti che affrontano grandi avventure. Marquez sottolinea con leggerezza di tocco, “appesantendo” – nel senso di gravare, sovraccaricare – la tristezza della solitudine nelle sue “creature”, in una comunità dove magia e realtà si mescolano e il confine non tracciato tra di esse appare e scompare, in una delle opere considerate tra le più significative della letteratura del 900.
[…] “Non aveva fatto altro che trasformare le insegne regali in una macchina per ricordare. La prima volta che le indossò non riuscì a evitare che le si formasse un nodo nel cuore e che gli occhi le si riempissero di lacrime, perché in quell’attimo tornò a percepire l’odore di lucido degli stivali del militare che era venuto a cercarla nella sua casa per farla regina, e lo spirito le si cristallizzò nella nostalgia dei sogni perduti. Si sentì così vecchia, così sfinita, così distante dalle ore migliori della sua vita, che dimenticò perfino quelle che ricordava come le peggiori, e soltanto allora scoprì che le mancavano le folate di origano nel porticato, e il vapore dei rosai al crepuscolo, e perfino la natura bestiale degli avventizi. Il suo cuore di cenere compressa, che aveva resistito senza vacillare i colpi più pungenti della realtà quotidiana, crollò ai primi assalti della nostalgia. La necessità di sentirsi triste si andava trasformando in lei in un vizio a mano a mano che le devastavano gli anni. Si umanizzò nella solitudine. Tuttavia, il mattino in cui entrò nella cucina e si trovò davanti a una tazza di caffè che le offriva un adolescente ossuto e pallido, con un bagliore allucinato nello sguardo, la lacerò la zampata del ridicolo. Non soltanto gli rifiutò il permesso, ma da allora conservò le chiavi di casa nella borsa dove conservava i pessari non ancora usati.” […](Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine).
Siamo allora immersi in una visione solipistica, nonostante il concetto di comunità, che potrebbe essere solo un’idea, un miraggio?