Il trasformismo politico dai Quaderni dal Carcere di Gramsci ad oggi

Il trasformismo politico e i voltagabbana

Si intende comunemente per “voltagabbanismo” il mutare repentino dell’orientamento di esponenti politici e per trasformismo il fenomeno più generale, che comprende come sottoinsieme il primo, sia del passaggio di un soggetto politico organizzato da un campo politico all’altro sia il suo permanere teorico in un campo mentre in effetti si sviluppano politiche opposte a quelle del programma proclamato e sulle quali si era richiesto il voto. In entrambi i casi si può passare, in specifiche condizioni, attraverso scissioni, nascite di nuovi soggetti o pseudo-soggetti (più o meno personalistici) o no.

La legislatura italiana da poco conclusasi e la stessa forma della sua conclusione  hanno visto voltagabbanismo e trasformismo portati a vette difficilmente paragonabili col passato ma questo fatto può confondere le idee e far credere che si tratti di fenomeni caratteristici solo di questa fase storica, diciamo degli ultimi 3 decenni, mentre ad esempio il trasformismo fu per decenni la base del sistema di governo giolittiano.

Il trasformismo nei Quaderni dal Carcere di Gramsci

Un’analisi magistrale del fenomeno del trasformismo e del voltagabbanismo italici è realizzata da Antonio Gramsci nei Quaderni dal Carcere (in particolare nel quaderno 8, XXVIII, scritto fra il 1931 e il 1932, ossia nelle pagine 962-964 dell’edizione Einaudi del 1975) e giustamente egli inserisce tale analisi in quella ben più ampia (che costituisce uno dei temi più fecondi dei Quaderni) sul Risorgimento italiano, che va vista non come uno studio meramente storiografico, né solo come una riflessione sugli aspetti politici del Risorgimento stesso, ma anche e soprattutto come un approfondimento delle caratteristiche strutturali (economiche, sociali, ecc.) e sovrastrutturali (culturali, ideologiche, di relazioni internazionali, ecc.) dell’Italia nata da quel Risorgimento e dalle sue peculiarità largamente negative, anche in vista dei doveri di un “moderno Principe”, ossia di quel “partito di tipo nuovo” a cui soltanto Gramsci affida il compito della rigenerazione nazionale.

Una analisi che serve a Gramsci addirittura a formulare e precisare quello che è uno dei concetti essenziali del suo pensiero e che costituisce il nucleo dell’immenso interesse e dell’attualità in tutto il Mondo (e specie in ambito latinoamericano, francese, ecc., più ancora che, purtroppo, in quello dell’Italia degli ultimi decenni) di tale pensiero, il concetto di egemonia.

La rivoluzione passiva

Gramsci non si rinchiude in un’analisi appiattita su un giudizio morale del trasformismo-voltagabbanismo, tipico delle polemiche sterili mediatiche attuali (ma già di quelle giornalistiche e dell’epoca di Gramsci ed anteriori ad essa) ma, riferendosi alla sua analisi del fenomeno della “rivoluzione passiva”, parte dal riconoscere come esso sia “una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla <<rivoluzione-restaurazione>> o <<rivoluzione passiva>> a proposito del processo di formazione dello stato italiano” ed è bene sottolineare che anche il fenomeno del fascismo viene collegato nei Quaderni da Gramsci al concetto di “rivoluzione passiva”, ossia di un processo innovativamente rivoluzionario ma che ha scopi di accentuazione del dominio di classe e di passivizzazione degli sfruttati.

Gramsci individua il trasformismo “come <<<documento storico reale>> dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell’azione militante” e cita specificamente come esempio il Partito d’Azione di età risorgimentale (da non confondersi con quello della lotta antifascista che pure a quello si vorrebbe richiamare), un soggetto l’analisi della cui incapacità di far corrispondere a proclami roboanti e velleitarismi un vero programma capace di coinvolgere innanzi tutto le masse rurali (dimenticate) e della conseguenza della vittoria del progetto moderato cavourriano (influenzato da Francia e Inghilterra) nel risorgimento rappresenta uno dei cardini delle riflessioni di Gramsci sul tema.

Egli distingue poi due tipi di trasformismo che caratterizzano due fasi della Storia italiana: “1) dal 1860 al 900 trasformismo <<molecolare>>, cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d’opposizione si incorporano singolarmente nella <<classe politica>> conservatrice moderata (caratterizzata dall’avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, ad ogni riforma organica che sostituisse un’<<egemonia>> al crudo <<dominio>> dittatoriale); 2) dal 900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato.”, sebbene il primo fenomeno non scompaia con l’avvento del secondo.

Esempi di trasformismo: Crispi e Mussolini

Un esempio del primo tipo è certamente Crispi, che da radicale mazziniano garibaldino barricadiero si trasforma in massacratore di proletari e gestore di politiche antipopolari in pieno accordo con le classi sfruttatrici e la monarchia; un esempio del secondo tipo sono le “conversioni” al nazionalismo interventista di settori e formazioni dell’estrema sinistra già nel 1911 in occasione della Guerra di Libia e poi nel biennio 1914-1915, che si intrecciano con voltafaccia come quello di Benito Mussolini che da socialista radicale, mangiapreti, repubblicano e antibellicista nel 1911 diventa interventista finanziato dal capitale straniero, fondatore del fascismo pochi anni dopo e gradualmente si fa strumento del padronato, degli agrari, colluso con la monarchia e infine col Vaticano.

Gattopardismo

Gramsci, inoltre, collega il trasformismo-voltagabbanismo a una lunga storia caratteristica italiana, che parte nel XVI secolo dal “Franza o Spagna basta che se magna” a segnare la sudditanza agli stranieri di un’Italia che, nonostante le mitizzazioni a posteriori, non ha un senso unitario dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente in poi e continua in quello che, riferendoci ad un romanzo di Tomasi di Lampedusa di 26 anni dopo lo scritto gramsciano siamo soliti chiamare “gattopardismo” e che però già Gramsci studia benissimo, ossia l’attitudine delle classi possidenti siciliane borboniche ad abbracciare il nuovo Stato sabaudo “per cambiare tutto perché nulla cambi”, a cui corrisponde ad esempio il pendolarismo fra austriacantismo e sabaudismo delle classi possidenti lombarde.

E’ questo in effetti il fulcro della questione: il trasformismo-voltagabbanismo può certo avere motivazioni contingenti di ordine specifico, spesso eticamente bassissime, quando individualmente ci si vende per soldi, per una poltrona di governo, sottogoverno o di una nomina, o per un collegio elettorale blindato, oppure quando un soggetto politico si aggrappa opportunisticamente al carro del prevedibile vincitore o stringe accordi di puro potere con un ex-avversario anche se magari lo aveva insultato fino al giorno prima; ma le vere motivazioni, come nota Gramsci, si trovano a monte e stanno in una serie di elementi che si ripetono spesso in Italia, più che in nazioni che hanno visto la costruzione dello Stato (e del senso dello Stati) e della cittadinanza in forme diverse ed in periodi assai anteriori rispetto all’Italia stessa.

Le motivazioni del trasformismo politico

Tali elementi sono: a) l’assenza di una effettiva corrispondenza fra soggetti politici (e loro proclamazioni) e reale rappresentanza di interessi di classe in particolare dei ceti popolari e sfruttati; b) l’intercambiabilità conseguente dei programmi e ancor più della loro applicazione effettiva o meno; 3) l’influsso diretto e indiretto di potenze straniere, ieri Francia e Gran Bretagna, dopo la Seconda Guerra Mondiale USA, iun termini di modello socioeconomico,  scelte internazionali, vantaggi economici, orientamento politico, selezione dei gruppi dirigenti, ecc.; c) la fragilità del senso dello Stato collegata alla fragilità di una vera borghesia nazionale non parassitaria, non succube dello straniero, non collusa con rendite, mafie, illegalità sistemiche.

Nelle fasi in cui quegli elementi si accentuano, cresce fra gli altri fenomeni degenerativi anche il trasformismo, assieme alla collusione fra poteri istituzionali e criminali, fra illegalità diffusa e corruzione amministrativa, fra svendita allo straniero degli interessi nazionali e negazione di fatto del ruolo propulsivo dello Stato.

Un partito che rappresenti la classe degli sfruttati

Come si è detto, Gramsci individua un solo antidoto, da costruire, a questi ed altri fenomeni degenerativi: la formazione e la crescita di un partito che abbia la triplice funzione di rappresentare effettivamente gli interessi di classe degli sfruttati, di assumere contemporaneamente un ruolo nazionale attraverso la conquista di una egemonia politica, culturale, sociale e infine di svolgere un ruolo educativo e orientativo delle masse popolari per prepararle ad esercitare collettivamente le due funzioni già citate. Quando un simile soggetto, pur coi suoi limiti ed errori, esiste non si azzera il trasformismo e il voltagabbanismo: un Bombacci un Silone, un Giuliano Ferrara compaiono anche in tale situazione, ma difficilmente arrivano a caratterizzare l’insieme della realtà delle forze popolari.

Quando invece il soggetto si frantuma e/o assume dietro slogans massimalistici scelte reazionarie, o ancora perde ogni effettivo contatto con quelle realtà sociali che pretende di rappresentare (e ne perde anche i voti, che rifluiscono nell’astensionismo o scivolano nel populismo di destra o di sinistra), allora si vedono ex-estremisti di sinistra diventare ministri dell’Interno leghisti, ex-redattrici de Il Manifesto divenire berlusconiane, ex-sindacaliste dei braccianti organizzatrici di scioperi contro il job act esaltare da ministre il job act, soggetti politici che si proclamano antifascisti e antirazzisti governare coi razzisti e sdoganare i fascisti, vecchi leaderini di formazioni da prefisso telefonico che si autodefiniscono “comunisti” e anti-NATO fare accordi con figure reazionarie o far eleggere a Presidente di Commissione Esteri del Senato una atlantista dichiarata figlia del vituperato Craxi.

Il degrado dei partiti e i processi storici

Dunque, anche se il problema si riverbera sulla realtà, sull’immagine mediatica, sul disincanto di larghe fasce dell’elettorato popolare in termini di “fate tutti schifo!” e “siete una casta!” (si noti che “casta” fu termine usato per primo proprio da Gramsci per stigmatizzare il degrado dei partiti tradizionali borghesi e socialisti!), esso ha una dimensione assai più profonda di quella soltanto etica e piangersi addosso perché si accentua, o sull’astensionismo dilagante è segno di ipocrita superficialità. Già Malatesta (nato nel 1853 e morto in quel 1932 in cui Gramsci scriveva in carcere) tuonava non solo e non tanto contro il “degrado” dei partiti italiani post-unitari ma contro la trama stessa di correlazioni storico-politiche che caratterizzava la vicenda unitaria italiana e che era il brodo di coltura quando non la causa di quel “degrado”.

Certo le proposte di Malatesta e quelle di Gramsci non coincidevano affatto, ma un elemento essenziale li accomunava (oltre al grande rigore intellettuale, morale e umano): il non farsi intrappolare nelle apparenze, nelle contingenze e riconoscere invece che ogni contingenza è figlia di processi storici, che solo altri processi storici possono mutare e che solo l’azione della volontà collettiva umana può determinare quei processi storici.

Senza quei processi storici e quella azione umana necessariamente incarnata in soggetti concreti e organizzati, a dominare torna prima o poi, fra gli altri strumenti di oppressione e sfruttamento, il regno del “Franza o Spagna basta che se magna”,…e  sempre è un “mangiare” riservato sostanzialmente (salvo poche briciole) a un numero limitato di ascari che contribuisce ad escludere le masse popolari dai loro diritti.

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