“J’accuse”…sulla poesia italiana, l’orientamento politico dei poeti, il vecchio concetto di egemonia gramsciana, tutto in nome del più moderno “poeticamente corretto”…

In qualche modo queste mie righe vogliono essere un piccolo “J’accuse” alla comunità poetica e anche a tutto il mondo della poesia italiana. Come ho scritto altre volte e a più riprese da tempo immemorabile il mondo della poesia italiana è dominato dai comunisti, da poeti con la tessera del partito democratico o che hanno come referenti politici  comunisti e del partito democratico. A livello editoriale e culturale sono loro che dettano legge, che impongono i loro gusti e canoni e lo fanno in modo formalmente civile, ma perentorio. Salvano le forme (perbenisti di facciata come sono), ma a conti fatti non si rivelano dei veri “democratici” come in teoria si professano. Ci tengono alle buone maniere e cercano di non fare polemiche. Il mondo della poesia apparentemente è un mondo pulito, sano, quasi incontaminato. In realtà è rappresentativo dei vizi tutti italici. In verità regnano gli scambi di favore, gli intrallazzi, i favori sessuali, la mafiosità culturale (quella con la m minuscola, quella che non uccide). Chi ideologicamente non è sulla stessa lunghezza d’onda viene oscurato, emarginato. Esistono i poeti che sono anarchici o liberali, ma non esprimono il loro modo di essere e di sentire nelle loro poesie per paura di essere ostracizzati, rimossi, annientati. Il poeta anarchico non canta la sua anarchia o se lo fa, lo fa molto sottovoce, in disparte e in modo quasi clandestino. Nella poesia italiana ha vinto Sanguineti e i sanguinetiani, Pasolini e i pasoliniani, etc etc, con tutto il rispetto e la stima per costoro. Il problema è che non viene dato spazio né modo di cantare alle voci fuori dal coro.  Letterati comunisti e anche quelli “democratici” sono aperti e dialoganti solo in apparenza. In realtà vogliono dettare leggi incontrastati perché sono elitari, perché vogliono essere le uniche guide letterarie, perché credono ciecamente nel concetto di egemonia gramsciana. Avrebbero molto da imparare dagli  anarchici che non vogliono prendere nessun potere, ma sognerebbero di abolirlo. La vera democrazia in poesia ci sarebbe se esistessero poeti di ogni orientamento politico liberi di esprimersi. So bene che esistono dei cosiddetti “punti di contatto” tra anarchia e comunismo, ma a onor del vero sono sempre stati i comunisti a rivendicare il primato culturale, a dividersi con i soliti settarismi.  E non venite a dire che io la metto in politica! Sono ben altri che da decenni la mettono in politica, vista e considerata la politicizzazione della poesia italiana. Anzi sono sicuro che non tutti sappiano riconoscere questo stato di cose perché la poesia italiana e la sua ideologizzazione sono tutt’uno, si sono fuse ormai da decenni. Secondo la concezione comune i poeti sono contro, ma ne siamo veramente sicuri? Io nutro seri dubbi. E a ogni modo l’unico modo di essere contro è essere comunisti o “democratici”. Molti ci tengono alla loro carriera artistica oppure hanno paura delle stroncature o delle shitstorm via social: tutto ciò è umanamente comprensibile. Ecco perché non si discostano da questo conformismo dell’anticonformismo poetico! A tal proposito ritengo che le poche stroncature siano quasi sempre faziose, fatte per ferire o colpire chi non è allineato politicamente. Il fuoco amico contro chi è dello stesso partito o della stessa ideologia è molto raro e dovuto quasi sempre a idiosincrasie. Alcuni poeti o critici rinomati rideranno di queste mie righe (ammesso e non concesso che si degnino di leggerle) e potrebbero controbattere che avviene una selezione in base alla qualità, che molti sono chiamati e pochi gli eletti, etc etc. In pratica invece avviene una sorta di censura pseudo-ideologica. Chi comanda valuta sempre in base a ciò che uno scrive o in base a scambi di email o a incontri l’orientamento politico dell’aspirante poeta. A me fa ridere alcune volte e a tratti fa incazzare che questi letterati di regime siano così miopi. La vulgata vuole che il popolo italico non legga poesia contemporanea perché è ignorante, anaffettivo, senza sensibilità, né un minimo di cultura. Ma siamo così sicuri che sia tutta colpa del popolo bue, arretrato culturalmente? Mai nessun letterato che prenda la briga di criticare il sistema letterario! Mai nessuno che si faccia un minimo di autoanalisi e autocritica!  Tutti a difendere le loro rendite di posizione, le loro cattedre, la loro autorevolezza, vera o presunta! Sembrano non capire, non accorgersi che sono tutti reucci dei loro deserti, che predicano nel deserto o quasi, che quello che scrivono arriverà solo agli amici e agli amici degli amici. Cordelli e Berardinelli intitolarono un’antologia  dal titolo “Il pubblico della poesia”, facendo capire a chiare lettere che il pubblico vero e proprio non esisteva più. Ma tutti i letterati e i poeti hanno dato esclusivamente la colpa agli altri, hanno trovato il capro espiatorio nel popolo italiano. Pochissimi hanno cercato di capire le ragioni della disfatta poetica. Probabilmente i primi veri responsabili di questa poesia così marginale sono i poeti stessi, che non hanno saputo rappresentare degnamente la realtà italica né lo spirito del tempo. I poeti non hanno mai cercato di capire la gente, non sono mai venuti incontri al popolo, in nome e per una strenue difesa della letterarietà.  E poi molti letterati sono fieri di governare il mondo delle patrie lettere! Pur essendo teoricamente “progressisti” ritengono che giustamente nella poesia italiana regni il darwinismo, abbiano la meglio i più colti e capaci, pensando che regnino veramente meritocrazia e talentocrazia.  Poi però la realtà è che da soli se le dicono, se le scrivono e se le cantano e se le suonano. Io mi chiedo come può attrarre lettori un poeta “poeticamente corretto”, che scrive come moltissimi altri, che non rompe minimamente gli schemi, che non dice niente di nuovo sul mondo, né lo rappresenta in modo nuovo? Un poeta comunista è scontato perché si rifà a cose trite e ritrite, a una visione del mondo antiquata, sorpassata, inadeguata della realtà.  Un poeta “democratico” (uno che vota Letta o è suo amico o crede in lui) è lapalissiano che non può fare niente di nuovo in poesia. Si professano pure progressisti, ma sono retrogradi e scontati con la loro buona dose di retorica dei buoni sentimenti, di sdegno composto per come va male il mondo, di parvenza di poesia pseudo-oggettiva o di utopico tentativo raffazzonato di poesia civile. In realtà tutti dicono le stesse identiche cose, ma nessuno ha niente di nuovo da dire. Conosciamo a menadito le denunce, le lamentele, le critiche ponderate dei comunisti e dei progressisti. Conosciamo altrettanto bene il loro dogmatismo e il loro senso di superiorità morale, intellettuale.  Però siamo anche stanchi di questa tiritera, della solita solfa. Che i poeti anarchici trovino il coraggio di andare sopra le righe e rivendichino incautamente la loro anarchia! Che i poeti liberali (quelli che hanno letto Croce, Gobetti, Mill. Al diavolo i liberisti selvaggi!) si esprimano autenticamente. I poeti comunisti e “democratici” hanno scritto tutto quello che dovevano scrivere; sono sepolcri imbiancati, anzi peggio degli zombie, sono dei morti che camminano. Gli italiani sanno come sono e non li vogliono. Loro sono il vecchio da decenni ormai che avanza. Che cosa hanno da proporre di nuovo? Assolutamente niente, a ben vedere. La verità è che la poesia italiana è un cimitero. Ci sono tombe comuniste e democratiche per pochi fedeli, pii e devoti addolorati che portano sempre i fiori con riconoscenza.  Sarebbe l’ora del cambiamento, del rinnovamento. Ci sarebbe bisogno di nuove voci poetiche,  anche se i comunisti e i democratici non lo vogliono e dominano ancora incontrastati. 

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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