Recensione di Simona Spadaro del libro “La macchia mongolica” di Massimo Zamboni e di sua figlia Caterina Zamboni Russia. Note di vita e di viaggio.
La macchia mongolica o meglio, “ciò che deve accadere, accade”. La terra sconfinata e allo stesso tempo densa di confini, in cui si immerge Massimo Zamboni, insieme ai componenti del suo gruppo ed alla sua compagna, è la chiave di un “altrove”.
Un altrove immaginato, sognato, ricercato nella realtà della propria esistenza, oltre che nella controcultura avanguardistica delle letture di gioventù; ed allo stesso tempo un altrove inimmaginabile, non visto prima, eppure raggiunto.
Il percorso dell’io narrante, muta. Accade. Il viaggio, come racconta Zamboni, è “essere viaggiati”. In questo concetto, come in altri che si intrecciano nelle pagine di questo libro, c’è un meraviglioso rifiuto per le esperienze preconfezionate di andata e ritorno, per la retorica del viaggio omologato che la massificazione sociale delle esperienze ha portato con sé. Qualcosa che rimanda alla differenza abissale che esiste tra due personaggi identificati dal sociologo George Simmel del ”viaggiatore” (forestiero) e del “turista”. Il turista non vive il viaggio, ma esibisce nell’apparenza il viaggio, lo consuma. Il viaggiatore, vive. Viaggiando cambia, rinasce e muore. Può perdersi. Può persino scomparire. Quello che capita al viaggiatore Zamboni è che durante il viaggio, cresce, matura fino a divenire se stesso, quel se stesso che è adesso, ed addirittura altro da sé. Diviene “altrove” anche lui, come il mondo che sta percorrendo. Succede, durante il cammino, di incontrare la meraviglia. La meraviglia che l’altro nella diversità porta con sé, ovvero la meraviglia dell’incontro con la diversità culturale, che è sempre densa di ricchezza; e la meraviglia verso lo scoprire un linguaggio universale che ci abita, che ci parla aldilà delle lingue che sappiamo discorrere, attraverso i sorrisi, attraverso gli occhi e i gesti traboccanti di sensazioni antiche che porteremo sempre con noi nella storia dell’umanità. Così si esperiscono la gratitudine verso un universo stellato di rimandi, l’amore nel dare, secondo le proprie possibilità, che alla fine conduce sempre in un avere più grande, che solo col senno di poi si può osservare. La crescita dell’autore lungo il proprio percorso narrativo, avviene con la presa di coscienza che il circostante si svela sempre di più: chiaro, intimo e familiare. Così familiare da sperimentare dei segni, meglio descritti come “sintomi”, in cui si sente “appartenenza”. L’appartenenza è un legame fatto di un consistente senso di peso e di un’ebbra sensazione di leggerezza insieme, verso qualcosa, in questo caso una terra, un popolo, una natura ben definita e descritta in tratti unici e distinguibilissimi.
La purezza dello sguardo dell’autore incontra la bellezza dello sguardo della gente che lo colpisce. Sono incontri raccontati, densi di intensità e poesia. Sono passi inquieti ed ansiosi di luce, i suoi, e quelli della band che ha fatto crescere molti ragazzi della mia generazione tra punk e scrittura lacerante nel buio più pesto. Quel linguaggio che parla di un andare oltre, nell’ossessione di scavalcare confini, irrompe fino a rendersi unico nell’orecchio musicale di una generazione che mai abbandonerà quelle canzoni, nemmeno quando il viaggio per fondare Tabula Rasa Elettrificata e tanto altro ancora, sarà compiuto e lontano. Ma in Zamboni, che è l’io viaggiante e narrante di queste pagine, la Mongolia si fa meta, magia e presagio. Lui scrive come un fiume in piena nel bel mezzo dei deserti di questa terra, e la sua sete di scoperta sembra al lettore più forte della sete stessa. Piano piano il paesaggio viene inglobato dentro e si fa riflesso, a tratti lineare a tratti distorto, della propria interiorità.
Mentre viaggia, Zamboni scruta attentamente dentro di sé, anche tra le proprie vergogne, tra le proprie paure, e ci sono alcuni passi di affascinante tenerezza, quando ad esempio davanti ai canti tradizionali dei nativi mongoli, che fanno del canto una incredibile aderenza con l’essere (in chiave identitaria ancestrale) – con il proprio esserci (nel mondo) – scatta la paura di apparire fuori contesto, davanti alla richiesta di ascoltarlo cantare. L’essere cantante cambia radicalmente da questo altrove, che si fa qui ed ora per Zamboni, all’essere il cantante che si è in un occidente incastrato dalle proprie coordinate storiche postmoderne. In quell’altrove, che è la Mongolia, alcune coordinate temporali non corrodono il canto. Il canto esiste inossidabile. Tramandato. E’ un continuo mantra di gratitudine rivolto all’universo. In questo spettacolo, il viaggiatore attento si pone in ascolto, non erige se stesso alla pretesa di cantare anche se è un cantante. Ascolta, dopotutto sta viaggiando. E’ viaggiato. Nel frattempo scrive, annota quasi freneticamente, ma allo stesso tempo armonicamente, compone il suo libro. Un libro che è sicuramente un diario di bordo che spazia dalla scrittura etnografica a quella letteraria dello stream of consciousness, ma anche un rifugio di meditazione di quel che si è sperimentato dentro e fuori da sé, viaggiando.
Colpisce fortemente la sensazione dello spaesamento in alcuni punti di questa terra minuziosamente descritta, come quando si racconta del disagio della ricerca di un punto di fuga per l’occhio occidentale davanti a tanta vastità, a tanto deserto, a tanto esser uguale a se stesso il panorama in cui si è finiti, quasi fagocitati. Ma lo spaesamento non può portare ad altro che all’appaesamento, alla conquista di quella sensazione vorace di appartenenza, che si percepisce come un fremito, un vagito, un risveglio del proprio essere nella discontinuità, nella rottura, con quello che si è stati pochi istanti prima di allora. Questo appaesamento Zamboni lo chiama “imprigionamento”, un concetto che rimarca chiaramente un abbandono decisivo dentro questa appartenenza, questa Mongolia che gli si è rivelata altro, ed altrove.
Attraverso l’introspezione, concepisce, infatti, come certi segni o sintomi aprono orizzonti fino ad allora mai esplorati, come il rispecchiarsi negli occhi e nei sogni di alcuni bambini. Il sentirsi nominare padre di un figlio acquisito, nella sua disponibilità di aiutarlo a realizzare un sogno e nel sentirsi uomo capace di proteggere e di sperimentare amore e cura. Senso di cura, di preoccupazione disinteressata, tutto ciò che sicuramente costituisce una chiara disposizione paterna o materna al tempo stesso. La sensazione che il vuoto è carico di presenza e che una persona può essere molti altri da sé, in una ritualità magica che si armonizza al generare della natura, dell’universale e del circostante. Queste sensazioni sperimentate e interiorizzate da Zamboni in una splendida lettura intimista, che sempre emerge dalla sua penna e dalle sue corde, lo conduce a generare un altro da sé, o meglio alla consapevolezza della conquista del desiderio di generare un altrove dopo aver sperimentato il miraggio dell’altrove in cui ci si è persi.
Termina il viaggio, il primo viaggio in Mongolia, e due anni dopo nascerà il frutto del seme del desiderio che ha portato con sé. La piccola Caterina, che cresce, mentre altri fiori colti durante il viaggio, sono stati messi sotto vetro, incorniciati in un quadro. I fiori saranno sempre lì ma lei a 18 anni, esprimerà il desiderio di ritornare alle origini, nel posto in cui è stata generata. Vent’anni più tardi dalla prima data di andata, si compirà il ritorno, questa volta in una abissale intimità di nucleo familiare composto da madre, figlia e padre, oltre che dagli elementi immutabili della natura e da quelli mutabili del corso del tempo che si fa presente adesso, piano piano, anche in Mongolia. Oltre alla dimensione sincronica dello sguardo padre/figlia c’è la dimensione diacronica del secondo viaggio, quello in cui Zamboni non trova più tante cose di allora uguali a se stesse come nel tempo fermo dei ricordi.
Infine emerge il tempo di Caterina nella terra del suo venire al mondo. Ed è un’incantevole sguardo, colto e altrettanto capace di ascolto, quella di Caterina, degna figlia di Massimo, nel raccontare quello che c’è, quello che aveva visto prima di arrivarci e quello che vuole da se stessa e da quella terra sua. Come i loro antenati, per sempre legati alle radici emiliane, esiste per loro un’altra terra, altrettanto propria, dove sono affondate le radici dell’esistenza e dove bisogna andare per non perdersi e per perdersi insieme, per trovarsi, per essere.
Ci sono due momenti che hanno emozionato chi sta scrivendo questa recensione: l’espressione dell’ostetrica rivoltasi quasi maieuticamente, ai genitori di Caterina con la piccola in fasce, ed un pianto – un particolare pianto della bambina che diventa donna, quando finalmente scopre se stessa – messa al mondo – in una fortissima percezione di coincidenze sensibilissime, al suo primo ingresso dentro una gher con il dolcissimo abbraccio del padre che ha capito la magia che sta provando lei, la sua bambina, il suo altrove desiderato e messo al mondo che, prima o poi, volerà anche lontano da lui per raggiungere a sua volta il suo altrove e portare a compimento il delinearsi della macchia mongolica tatuata nelle loro anime indissolubilmente.
Rimango sempre stupito di quanto la maggioranza dei giornalisti non sa vedere in una opera. Non sto parlando delle mie opere, naturalmente. Questa non è una recriminazione, ma un complimento: a Simona Spadaro, che ha saputo vedere tanto, e si è accostata al libro con curiosità e profondità. Grazie.
Massimo Zamboni
Che gioia Massimo! grazie a te, per tutto quello che riesci a comunicare al mondo, che va sempre oltre la convenzionalità e la piattezza. Sei un uragano nella tua interiorità, ed il tuo sguardo sul mondo penso sia davvero un gran dono, tanto che “leggerti” è come ascoltarti. I tuoi concerti mi sono rimasti nel cuore, “La macchia mongolica” è il primo libro che ho letto dei tuoi, mi hai fatto venire voglia di leggere gli altri che lo hanno preceduto:) Con gratitudine e stima, Simona