La perdita del noi e l’arte

L’unica cosa certa mi sembra che oggi sia quasi impossibile la creazione di opere totali. Ma dovremmo partire da un discorso più generale per affrontare questo argomento. Il noi è andato quasi perduto. Per spiegare ciò dobbiamo chiedere aiuto alla filosofia. Sostanzialmente esistono due scuole di pensiero a riguardo. La tesi di Marx: il plusvalore, i mezzi di produzione, l’alienazione, la proprietà privata, lo sfruttamento del capitalista sul lavoratore hanno generato enormi sperequazioni socio-economiche e disgregato la società civile. La tesi di Heidegger, Spengler, Junger, Severino: il dispiegarsi del nichilismo occidentale ha decretato il dominio incontrastato della scienza e della tecnologia, plasmando un uomo nuovo dedito soltanto a coltivare il proprio orto e al calcolo del profitto. Ma facciamoci anche soccorrere dalla sociologia. Già con l’inizio dello sviluppo industriale si sono deteriorati quelli che i sociologi definiscono gruppi primari, cioè quelli informali, faccia a faccia. A questo proposito basta citare la tematica dello sradicamento di S.Weil, il concetto di anomia in Durkheim. Il deteriorarsi di queste reti amicali, di questo intreccio di micromondi (e il conseguente deteriorarsi delle assunzioni di ruolo, delle regole di appropriatezza, di rituali, di un ordine simbolico e di griglie interpretative condivise di questo particolare tipo di gruppi) hanno determinato una mancanza di senso di identità e di appartenenza per l’individuo, una perdita di sostegno emotivo e affettivo per il soggetto. Rapidamente si è andato smarrendo il senso di un’unità collettiva, che con il suo manto protettivo rassicurava ogni persona. L’insoddisfazione e una sensazione maggiore di isolamento di ognuno hanno creato ansia e angoscia esistenziale. Fino agli anni ’70 si poteva parlare di “noi”. Oggi non è più tempo di rivivere le avventure di libri culto, di opere generazionali come “Sulla strada” di Kerouac e “Lo zen e l’arte della motocicletta” di Pirsig. E’ finito da decenni il fenomeno dell’autostop. Non è più possibile. Ma d’altronde non potrebbe essere altrimenti: nessuno fa salire in macchina nessuno per una diffidenza commisurata al grado di violenza e di follia di questa società. Eppure Kerouac mettendosi a bordo della sua Pontiac era stato in grado di vedere l’America da una nuova ottica e allo stesso tempo di incontrare le persone più disparate. Pirsig ci aveva insegnato che la motocicletta poteva aiutare ad avere intuizioni fulminee sul pensiero occidentale, dopo riflessioni estenuanti che vagavano da Platone agli intellettuali del ’900. E’ finita la controcultura. Quei ragazzi descritti da Antonioni in “Zabriskie point” non esistono più in un periodo come quello attuale, dove le università sono solo esamifici e non più luoghi di incontro e di discussione. Privato e pubblico si sono dissociati da tempo. La politica poi non interessa più nessuno. Nessuno agisce collettivamente. Anche i soggetti plurali di “Altri libertini” di Tondelli non esistono più: si sono suicidati o si sono pseudo-integrati. L’immaginazione che non è mai stata al potere si è smarrita chissà dove. Il pensiero liberale è diventato liberismo selvaggio e l’egualitarismo invece è morto. I cosiddetti intellettuali del dissenso si sono imborghesiti e nei loro laboratori non destrutturano più parole, ma per conservare i privilegi si adeguano agli imperativi del pensiero debole o al citazionismo ludico del postmoderno e scrivono in una lingua normale, lontana dal dialetto e dal plurilinguismo. In questo particolare clima, in questa fase di stagnazione solo l’incompreso e il militante vecchio stampo dimostrano un certo risentimento civile, invocano la palingenesi, sembrano per qualche attimo interpretare le istanze della gioventù sessantottina. Ma sono invettive o solo parodie?
Il noi non esiste più. Un’alleanza più o meno tacita tra potere politico e grande industria ha deciso che separare il più possibile le persone era proficuo, forse addirittura l’unico modo possibile per continuare i cicli produttivi: dare ad ognuno un telecomando e la possibilità di stare seduto inebetito davanti alla televisione per sorbirsi slogan pubblicitari e vivere vite fittizie (immedesimandosi nei personaggi di film) era forse l’unico modo per far divenire ognuno un ottimo consumatore e un cittadino modello, che non aveva più modo di incontrarsi con altri, discutere, crescere culturalmente, creare proteste politiche. Isolamento era sinonimo di pace sociale e di rimozione progressiva delle problematiche politiche, sociali, economiche, che angustiavano le masse. Ecco di conseguenza che il noi è andato quasi perduto per interesse e per eliminare ogni potenziale disturbo al Potere. Non va ad esempio dimenticato che lo psicodramma di Moreno fu proibito nel corso della dittatura cilena perché questa tecnica psicologica di gruppo riusciva a far raggiungere la catarsi alle persone, poteva dar modo di esprimere le loro potenzialità inespresse, poteva in definitiva far prendere coscienza a queste la possibilità di una rivolta. In Italia questo processo di sfaldamento del noi è stato molto più indiretto e più soft, vivendo in una democrazia. Insomma il livello macro ha condizionato fortemente il livello micro. Ma essendo l’interdipendenza necessaria per tutti, essendo quasi scomparso il noi, si è andato anche indebolendo l’io; molti fattori e una concatenazione di cause hanno minacciato la stabilità dell’io. Il risultato è che mai come nel corso di questa modernità l’io si è espanso e contratto a dismisura.  Non si sa bene dove inizino e dove finiscano i confini dell’io. Sappiamo comunque che inconscio individuale, inconscio collettivo, sovrastrutture ideologiche, bombardamenti massmediatici, iper-informazione, sovrastimolazione sensoriale premono sull’individualità di ognuno, su quel grumo di razionalità, sentimento, radici, che dovremmo chiamare io. Non è un caso che i cosiddetti disturbi di personalità, venti anni addietro sconosciuti e rarissimamente diagnosticati, si diffondono in misura esponenziale in quest’epoca. C’è un interscambio continuo dalla culla alla tomba tra individuo ed ambiente, tra psicologia della personalità e psicologia sociale. Chiamatelo io, coscienza, Sé, anima, mente, cervello. Chiamatelo come volete. Però il risultato non cambia: la struttura intrapsichica della mente non esiste, ma solo quella interpsichica. E’ la madre, il padre e la famiglia, che ci insegnano a parlare. Sono gli altri, che ci formano. La genesi del linguaggio e della coscienza è sociale. E l’altro è sempre presente nel corso di tutta la vita anche nei pensieri più intimi. Essendo determinante la matrice psicosociale, una civiltà post-industriale alla deriva non aiuta la genesi, la formazione e la stabilità dell’io. Non ci dimentichiamo inoltre che Cartesio e l’illuminismo erano un tempo i capisaldi del primato della ragione sulla passione, ma che recentemente anche la razionalità, che doveva fare da fondamento all’io è sempre più stata messa alla gogna. A forza di scandagliare nella mente psichiatri, filosofi e studiosi di ogni branca si sono accorti di tutta una mole di distorsioni e limiti gnoseologici, psicologici, mentali della razionalità umana. Qualsiasi forma di letteratura scaturisce dal rapporto tra io e mondo. Ricapitolando l’io è in crisi e il mondo si è fatto così proteiforme e cangiante ad ogni minuto che passa, che è un’impresa titanica rappresentarlo totalmente. Ne consegue che anche la possibilità di creare opere, che “aprono mondi”, è fortemente minacciata. Difatti nel Novecento non si sono più realizzate opere come quella di Dante in poesia o come quella di Balzac in narrativa. In poesia nel Novecento abbiamo visto un grande poeta come Tagore con i suoi canti cercare di carpire l’assoluto, l’eterno, l’infinito. Ma i canti di Tagore a mio avviso non possono essere considerati un’opera totale e gli autori occidentali del ‘900 non sono mai riusciti a mostrare una capacità di raccoglimento, di pace interiore e di meditazione simile a quella di Tagore. Poi -che lo si voglia o meno- ogni occidentale è un mistico inibito. In Occidente nel ‘900 abbiamo potuto leggere uno scrittore massimalista come H. Miller, ma anche a lui è mancato un Libro Totale. Non solo, ma Miller si sofferma troppo su alcuni aspetti dell’esistenza come la carnalità e il sesso, che lo distolgono dalla creazione di un’opera che possa descrivere tutto in egual maniera. La rete dell’autore è troppo angusta per abbracciare il mondo e fornire una visione di insieme efficace, sia perchè omnicomprensiva sia perchè sintetica. Locale e globale sono le due polarità su cui oscilla la mente del creativo attualmente. Con un gioco di parole potremmo affermare che gli autori odierni sono davvero indecisi se localizzare il globale o globalizzare il locale. Paragonando la poesia ad un’antica città romana direi che nei secoli precedenti ad un autore era possibile fabbricare un’opera monumentale, un tempio, un anfiteatro o un arco di trionfo. Attualmente è possibile al massimo disegnare una minuscola scena dei bassorilievi della colonna Traiana o lasciare i propri geroglifici in una epigrafe. E’ impossibile rappresentare il mondo, è possibile invece rifarsi a degli eventi minimi, a dei dettagli apparentemente insignificanti rispetto al globale.

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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