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Jen Campbell è autrice di bestsellers e poetessa premiata. The girl aquarium è la sua prima raccolta poetica completa. Le poesie di Jen raccontano i luoghi guasti delle fiabe e ridisegnano i confini della rappresentazione della bellezza, mettendone in discussione i canoni. Jen esplora sentimenti profondamente personali: l’amore, le diversità, il sesso e la disabilità, attori protagonisti del cambiamento e dell’incertezza.
Lo strato onirico del corpo
Già dalla primissima poesia della raccolta, ci si immerge immediatamente in una dimensione dai confini che si dilatano e si restringono, come il ritmo regolare di un polmone:
“And I try to explain that all stories can coexist and I am many separate things that disagree with one another and that is ok. Because in the forest that is many other forest, I found my lungs. […] And if we are seventy percent water does that mean that we are constantly falling from the sky? Towards forests that exist on paper.” tratto da Concerning the principles of human knowledge
La qualità della materia poetica ha sede nella capacità della stessa di spingere oltre i confini le terre dell’immaginazione del lettore: il lavoro di Jen è magistrale da questo punto di vista. A volte, guida lei stessa il meccanismo immaginifico rievocando figure della memoria collettiva, come l’accostamento del polmone alla foresta. Altre volte, lascia che la fantasia corra verso rotte inesplorate, rivelando la dimensione onirica del corpo, insieme poetico e fisico:
“On the bus home, I think of all constellations hiding under my skin. I think of the word vein and decide I don’t like it. […] I think that maybe we’re both lost in the skins of human planets.” tratto da Movement
Le immagini evocate da Jen si radunano all’interno di una fotografia del reale composita e distopica, che avvicina il suo lavoro a suggestioni provenienti dal realismo magico, dove gli oggetti magici si muovono in un contesto a tutti gli effetti realistico e quotidiano:
“You run across the garden - a pair of lungs. Blue fruit and attic-faced. Your eyes parachutes. The sky is black and I can’t make out your toes as they Morse code the grass. This is the night, you say. [...] I picture teeth along the cloud line. I need you to help me, I say, panicked. My breath is clouds. I need you, I say.” Tratto da Girl lunar
La voce degli invisibili
Il lavoro di Jen si compone di numerosissimi personaggi, alcuni chimere del fantastico altri animazioni reali del mondo contemporaneo. La presenza ricorrente di Caitlin conferisce alla scrittura poetica una struttura in parte narrativa. Caitlin compare un paio di volte lungo tutta la raccolta, l’impressione è che possa essere un personaggio distinto dall’io poetico, ma anche uno dei numerosi io-specchio, un alter ego dell’io poetico. Caitlin appare immediatamente:
“Caitlin has ghosts on her tongue, seaweed in her bladder and trees in her groin. She is Mary: growing growing in a Victorian fruit bowl. She is a washing machine. She scrubs her moon fingers when the people sleep.” tratto da #1
Il poeta dialoga con molti personaggi, attuando un processo di identificazione nell’altro e di sovrapposizione, che assottiglia i confini, come in What the bearded Lady told me:
“That she’s never been called girl. That the word girl sounds like a type of tree to her. […] That sometimes she covers her face in paper. […] That between her legs is volcanic. That men are terrified. That she loves how terrified they are.” tratto da What the bearded Lady told me
Jen seguita ad incontrare ed incorporare personaggi attori di un freak show, di cui lei si sente parte e non solo cronista. Lo spettacolo dura fino all’ultima pagina della raccolta:
“ III In this new world, there are forests and duck-feet shoes. There is us, there. Waiting. Our crow mouths full of feathers. We are stamping. Stamping. Stamping. Stamping our new born feet.” tratto da The day we ran away from the circus
L’uso del dialetto: geordie
Sparse all’interno delle ultime due sezioni della raccolta si troveranno delle poesie la cui lingua sembrerà particolarmente strana anche a coloro che non sono avvezzi alla lettura in lingua inglese: ci troviamo di fronte ad una serie di poesie scritte in dialetto geordie.
Jen è originaria di un borgo vicino al mare nel nord-est dell’Inghilterra, nonostante adesso viva nei pressi di Londra. La scelta del dialetto è una dichiarazione d’appartenenza e, al contempo, di riconoscenza e conferisce spessore alla lingua della voce poetica, oltre ad un valore criptico interessante:
“And then they caught us - me ’n’ Caitlin. We was dancin our way yem. Fairgrounds in for eyes blazin out like dancin lions and me stomach a stinkin jellyfish aal zip-zappin around. […] And then they caught us. Said we was danger. Said our queer souls was a well- lookin at us like w’fishes what swam but should’ve drowned. Yet, I think me soul’s a lighthouse and I cling t’Caitlin’s arm.” tratto da Netted
L’immaginario si mantiene, rivive nei ricordi, li arricchisce con il panorama acquatico a cui ci ha abituati finora. Ma ciò che rende il percorso più entusiasmante è la dimensione del suono: provate a leggere questi pochi versi a voce alta o provate ad ascoltare Jen stessa che li legge (min. 8.10). Le ripetizioni, le rime interne e quelle baciate la rendono quasi una filastrocca o addirittura le donano una ritmica rappante.
Questa incursione dialettale ci permette di fare una riflessione sull’importanza della dimensione sonora nella scrittura poetica e ci ricorda che non c’è poesia senza musica, ci ricorda che non esiste la poesia letta in silenzio. Riesce a donarci una chiave di lettura alternativa e a chiarire il background del poeta stesso. Jen è una specialista del mondo della scrittura favolistica e della sua ricezione passata e presente.
L’andamento delle poesie dialettali mi ha ricordato il limerick, il nonsense di Edward Lear, ma anche Phantasmagoria di Lewis Carroll.
Ascoltare Jen leggere i suoi versi mi ha riportata ad una dimensione orale del racconto che incanta e risveglia una sopita atmosfera mnemonica.
Le dimensioni della realtà
A parte la difficoltà della lettura del dialetto per chi, come me, non è di madrelingua inglese, il lavoro di Jen è stupefacente e le difficoltà di lettura possono essere superate riconsiderando la portata del suono.
Il mondo in cui Jen ci introduce è doloroso, ricco di tutte le ferite accumulate, ma cerca, attraverso l’uso del fantastico, di elaborarle e usare lo strumento di elaborazione come parte integrante del processo di guarigione.
A Gianni Rodari, citando Novalis, piaceva ripetere: “Se avessimo anche una fantastica, come una logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare.” Jen ha esattamente questo dono: il suo mondo fantastico, inventato è un rifugio e anche una cura.
Vorrei consigliare questo libro a chiunque, in questo duro momento storico, abbia necessità di un rifugio: che possa comprendere che non vi è fuga dal dolore, ma che una guarigione è possibile.
L’autrice
Jen Campbell è autrice di bestsellers e poetessa premiata. Ha scritto numerosi libri, tra questi una serie di libri illustrati per bambini, il cui personaggio principale è un drago amante della lettura di nome Franklin. Jen è inoltre autrice di due raccolte di racconti, la più recente delle quali illustrata da Adam de Souza è stata pubblicata nel 2021 da Thames and Hudson.
Jen è anche l’autrice della coppia di libri premiati come Sunday Times bestselling Weird things customers say in bookshops, che testimoniano in maniera goliardica la sua esperienza come libraia in una libreria antiquaria a Edimburgo.
Campbell gestisce da molti anni un canale Youtube, in cui parla di libri. Tra le sezioni più significative del canale, vi è quella dedicata alla storia delle fiabe; ha anche un sito personale, dove organizza workshop di scrittura creativa e fornisce servizi editoriali.