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La rivoluzione economica
Presupposti della rivoluzione economica
Quando si parla di rivoluzione, si intende un processo di trasformazione che genera un cambiamento profondo nella società. Il processo di cambiamento può essere veloce e violento oppure lento e pacifico. In questo ultimo caso parleremo di evoluzione sociale(5).
Le rivoluzioni
La storia è ricca di esempi di rivoluzioni armate su cui poter riflettere dell’effettivo valore ed utilità delle stesse. Gran parte di esse hanno fallito da un punto di vista di redistribuzione del potere, sostituendo ad un potere molto centrale e dispotico, un altro potere centrale e dispotico, seppure socialista.
Carlo Cafiero e la rivoluzione
Carlo Cafiero alla fine del diciannovesimo secolo aveva, in modo come sempre lungimirante, ben inteso che la rivoluzione socialista non poteva avere né come fine, né come mezzo, la realizzazione di un governo autoritario.
Come dichiara nelle sue pagine, in special modo in “Anarchia e Comunismo”, l’uguaglianza propugnata dalle teorie comuniste o socialiste, senza la libertà, vale poco.
La rivoluzione culturale
Dall’altra parte ci sono i fautori della rivoluzione culturale, quelli per cui non sarà una rivoluzione violenta a cambiare lo stato delle cose, ma una presa di coscienza collettiva, quelli per cui il cambiamento arriva, nel momento in cui ogni singolo individuo ha preso piena consapevolezza delle problematiche della società e capacità di analisi su come, invece, dovrebbe essere idealmente. Su questa base, ci sono teorie che stabiliscono in modo quasi evoluzionista che il cambiamento sociale si ha quando la popolazione diviene consapevole, senza bisogno di spargere sangue; quando è la gran parte degli individui a prendere coscienza, allora questi individui saranno anche dentro le istituzioni e nei luoghi di potere.
La rivoluzione culturale dovrebbe attuarsi attraverso manifestazioni pacifiche, iniziative di sensibilizzazione capaci di far cambiare opinione alla gente e costruire una nuova massa critica che entrando nelle istituzioni porterà al cambiamento dei paradigmi sociali.
L’errore di queste teorie, è il non tener conto della fisiologia del potere , della capacità che esso ha di rinnovarsi, proteggersi, conservarsi.
La manipolazione dei media
La stessa teoria della rivoluzione culturale ha un margine di azione molto limitato, per la presenza di mezzi di comunicazione di massa e di forme di linguaggio televisivo e giornalistico che rappresentano un evidente invito alla discriminazione, alla condanna di ogni forma di protesta nei confronti del potere costituito attraverso abili e distorte rappresentazioni della realtà. Su questo tema, superlativo è il lavoro di Noam Chomsky(6).
Dunque, non solo la rivoluzione culturale ha dei limiti, ed oggi su alcuni fronti di questa rivoluzione culturale possiamo, senza dubbio, dire di aver fatto passi indietro, ma se consideriamo che questa teoria prevede che il cambiamento debba arrivare da persone consapevoli all’interno delle istituzioni, possiamo dedurre che questo cambiamento, questa evoluzione non ci sarà mai perché abbiamo sottovalutato la capacità conservativa del potere.
Concentrazione del potere
Mai nessun individuo che conquista il potere rinuncerà ad esso. Mai il cambiamento potrà arrivare dall’alto, dalle istituzioni.
In questo periodo stiamo osservando una regressione del potere in circoli sempre più ristretti, dentro direttive oligarchiche. Non possiamo neanche trascurare il peso che hanno i potentati economici, le lobby, le multinazionali nell’influenzare il potere politico, e quindi il governo di un paese, e gli organi di comunicazione, agendo direttamente sul pensiero delle masse, sulle loro abitudini, consumi , aspettative, umori.
Il controllo del potere economico
Il potere economico, già concentrato e dispotico, controlla sia il potere politico che quel potere rappresentato dagli organi di comunicazione, e tiene a freno qualsiasi movimento di consapevolezza diffusa, creando un’aurea positiva attorno ad esempi di conservazione del potere come santi, forze dell’ordine, imprenditori, denigrando qualsiasi forma di opposizione al potere, seppure ideale, dialogica.
Non solo vengono criminalizzate le lotte sociali, ma non viene neanche lasciato loro lo spazio per potersi esprimere, per potersi spiegare e far comprendere le proprie ragioni a chi vive lontano e quelle lotte non può conoscerle direttamente nelle strade.
Limiti della rivoluzione culturale
La rivoluzione culturale ha quindi un potere limitato in quanto il cambiamento culturale è manovrato, rallentato da altri poteri, principalmente da quello economico che controlla ed influenza gli altri, ed è fonte di ogni iniziativa, e che rappresenta anche per le masse una speranza di benessere per il futuro perché comunemente si crede che dove c’è il potere c’è anche la possibilità di lavorare e quindi per gli individui di crearsi un accesso al potere economico.
Ma abbiamo già visto che è proprio la concentrazione del potere economico ad essere la causa di povertà e precarietà, attraverso lo sfruttamento del lavoro.
La rivoluzione capitalista
L’unica rivoluzione che possiamo considerare attuata con successo nell’ultimo secolo, a livello globale, è quella capitalista. Il capitalismo sta attuando i suoi programmi superando tutti gli ostacoli, tutte le proteste e mobilitazioni che vorrebbero fermarlo. La rivoluzione capitalista è lenta e graduale in modo che possa essere metabolizzata senza grandi sconvolgimenti nella vita delle persone. La rivoluzione capitalista è audace perché riesce a realizzare, in pochi decenni, cambiamenti che non saremmo in grado di prevedere o immaginare.
La lentezza del cambiamento
La rivoluzione capitalista è astuta perché è capace di farci accettare, con il passare degli anni, cose che se ci fossero proposte immediatamente, rifiuteremmo o combatteremmo. Potevamo prevedere qualche decennio fa quello che sarebbe diventato il precariato nel mondo del lavoro? E’ stato costruito gradualmente con leggi che credevamo insignificanti, spesso proposte dalla sinistra istituzionale. Potevamo prevedere cosa sarebbe diventata Taranto oggi? Assolutamente no, o lo abbiamo sottovalutato affascinati come eravamo dalla soddisfazione per il posto di lavoro, dal benessere che l’Ilva portava in città.
Alcuni esempi
Potevamo prevedere il ricatto della Fiat di Marchionne ai lavoratori e il rischio che la produzione potesse essere delocalizzata in altri paesi dopo tanti anni di finanziamenti pubblici dei vari governi alla Fiat? Potevamo prevedere che quella Tv pubblica che inizialmente portava alfabetizzazione nelle case degli italiani si sarebbe trasformata in uno strumento di controllo e di stagnamento delle consapevolezze individuali?
E quando Prodi e Ciampi ci portarono in Europa (entrambi furono premiati ricevendo successivamente cariche più prestigiose) potevamo immaginare che l’Europa delle Banche avrebbe imposto diktat ai governi nazionali, misure da intraprendere, riforme sociali e che per imporle avrebbe fatto cadere capi di governi e li avrebbe sostituiti con altri di proprio gradimento senza passare per legittime elezioni?
La semplificazione del capitalismo
Il capitalismo ha deciso di non volere più avere, in Europa, così tanti interlocutori quanti sono gli stati membri e di dover influenzare e corrompere così tanti individui. Il percorso di europeizzazione facilita il lavoro del capitalismo. Un solo governo da convincere a promulgare riforme, a prendere certe misure, ad approvare determinate leggi che poi tutti gli stati devono recepire e attuare.
Ma il capitalismo va ancora oltre. Sta, praticamente, concretizzando l’ideologia anarco-capitalista che prevede l’abbattimento degli stati e delle sue leggi per creare una dittatura del capitalismo e delle leggi di mercato. Il capitalismo, così, vuole disfarsi di tutte le regole e le limitazioni imposti dagli stati per poter agire incontrollati sullo sfruttamento delle risorse e dei lavoratori.
Le condizioni del lavoro
Senza tutele sul lavoro, il capitalismo, generando e sfruttando immigrazioni di massa di gente disperata vuole minimizzare il costo del lavoro senza nessun genere di tutele per operai. Le condizioni del lavoro le decide il mercato per cui ci sarà sempre qualcuno più bisognoso di lavoro disposto ad accettare lavoro sottopagato e senza tutele, in assenza di leggi sul salario minimo e altri diritti dei lavoratori.
Il capitalismo crea fenomeni funzionali alla propria rivoluzione che ha come primo nemico gli stati e il settore pubblico. Gli stati vengono destabilizzati con crisi create apposta che hanno lo scopo di imporre agli stati privatizzazioni dei settori e delle aziende controllate dallo stato, norme più flessibili sul lavoro per indurre le aziende ad assumere e svendite di beni pubblici per risanare un debito pubblico che non verrà mai estinto ma di tanto in tanto enfatizzato per tirar fuori nuovamente lo spauracchio e rimettere le mani sul patrimonio pubblico.
La crisi degli stati
Mettendo in crisi gli stati, il capitalismo riesce ad assoggettare meglio i lavoratori abbassando il costo del lavoro per essere più competitivi sui mercati in una folle corsa al maggior profitto minimizzando le spese. Fin quando il costo del lavoro dovrà essere oggetto di risparmio aziendale per favorire la logica del profitto? Un nuovo schiavismo è alle porte?
Tuttavia il capitalismo con la sua rivoluzione sta tracciando un solco interessante e sta facendo ciò che gli anarchici non sono mai riusciti a fare: abbattere lo stato, lo statalismo e il capitalismo di stato. Su questo solco si può seminare un nuovo genere di rivoluzione economica che, quando il capitalismo avrà messo all’angolino gli stati e li costringerà a cedere o chiudere scuole, ospedali, acquedotti ecc., potrà proporre una terza via, alternativa sia al capitalismo privato del profitto a tutti i costi, sia allo statalismo che vuole aziende di interesse strategico proprietà pubblica dello stato per garantire i servizi fondamentali: la terza via è il collettivismo.
Il collettivismo
Il collettivismo si contrappone agli istituti pubblici statali e a logiche privatistiche. Il collettivismo rappresenta una valida alternativa al capitalismo di stato e a quello privato. La gestione collettiva di aziende serve ad eliminare tutte le falle della gestione privata che porta gerarchia nei poteri e nei salari e genera disparità, povertà e precarietà contro ricchezza e strapotere. Non solo risolverebbe i problemi legati alla tradizionale gestione capitalista delle aziende ma colmerebbe le lacune anche della gestione statale delle aziende.
La gestione dello stato
Le aziende gestite dallo stato hanno tutte le stesso problema. All’interno di esse riesce a fare carriera chi ha raccomandazioni e chi porta voti al politico influente. L’azienda statale diventa un grosso macigno al piede dello stato che dovrà farsi carico di numerose assunzioni nei tempi immediatamente precedenti alle campagne elettorali, personale superiore rispetto ai compiti da espletare nel lavoro con aggravio sui conti dello stato.
La gestione collettiva
La gestione, collettiva, invece, non stabilisce gerarchie, capi, dirigenti strapagati e imprenditori predoni ma una linea orizzontale di potere che si realizza nell’assemblea a cui tutti gli operai partecipano. E’ l’assemblea dei lavoratori che autogestisce l’azienda e decide le direttive aziendali su assunzioni, produzione e vendite. E’ tutto interesse degli operai mantenere una gestione oculata dettata dal buon senso in modo da garantirsi, essi stessi, il proprio salario. Il collettivismo non rappresenta un’alternativa solo alla gestione economica delle aziende ma anche alle varie forme di governo caratterizzate tutte da apparati statali marci che fanno affari con mafie e imprenditori approfittando della disperazione della gente gestendo servizi in appalto.
Il collettivismo
Il collettivismo, invece, è l’unica forma di democrazia diretta piena, quella dell’autogoverno attraverso le assemblee pubbliche. Si distingue dalla gestione pubblica statale per l’assenza di delega. Non sono i sindaci, gli assessori, i dirigenti, ministri e deputati a prendere decisioni ma direttamente il popolo attraverso momenti di confronto pubblico. Il luogo decisionale torna ad essere la piazza.
Se una qualche forma di “istituzione” dovesse sopravvivere in un “regime politico collettivista”, dovrà occuparsi esclusivamente di questioni burocratiche, di prendere atto delle decisioni prese collettivamente e di attuarle. Mai più queste figure avranno potere decisionale. Il collettivismo come forma politica di governo si organizza su base locale, cittadina nel governo della città che diventerebbe il fulcro dell’attività politica. Gli stati cesserebbero di esistere e i comuni si federalizzerebbero tra loro mantenendo ognuno la sua autonomia.
La rivoluzione economica
Non ci resta che immaginare una trasformazione sociale che venga attivata proprio in ambito economico andando a sfruttare le debolezze del sistema per inserire, dentro di questo, elementi innovativi che ne vadano a cambiare profondamente la natura dispotica, in modo da realizzare quella distribuzione del potere che permetta a tutti di avere accesso al consumo e quindi ad una porzione dello stesso potere economico.
Abbattere la concetrazione del potere
Ciò che bisogna abbattere è la concentrazione del potere, non il potere in sé, perché esso non cesserà mai di esistere. E nel momento in cui sarà abbattuta la concentrazione di potere economico, la concentrazione di potere politico non avrà più senso perché dal potere economico viene nutrita ed in funzione di questa essa esiste. Il potere politico autoritario e centrale serve a costruire e conservare un potere economico sempre più concentrato e forte. Senza questo ultimo, il potere politico centrale autoritario perde il suo senso e viene meno. Vedremo meglio come.
La questione essenziale è che il processo di trasformazione è lento e graduale, e che viene dal basso. Alla base del cambiamento dev’esserci il movimento “antagonista”, autogestionario, non più diviso e frammentato ma compatto, seppure composto da individui con diversa formazione politica ed ideologia. Il movimento deve compattarsi attorno ad idee autogestionarie e confederaliste democratiche e partire dalla rielaborazione e dall’esperienza del movimento di liberazione curdo.
Giornata per l’abolizione del lavoro salariato
Il movimento, unitosi attorno a queste basi ideologiche può cominciare a lavorare sulla diffusione dei concetti politici propri (autogestione, autogoverno, confederalismo, municipalismo) e a creare consapevolezza sulla questione dei rapporti di lavoro anche attraverso l’organizzazione delle “Giornate per l’abolizione del lavoro salariato”. A questo punto bisogna intervenire nel sistema economico creando esempi di organizzazione del lavoro che diventino modello sociale, si diffondano e vadano a sostituire le già note forme di sfruttamento del lavoro e concentramento del potere economico.
La fondazione come istituzione collettiva
La fondazione, come forma di controllo e proprietà collettivo, può essere uno strumento da utilizzare per la costituzione di nuove aziende che non abbiano né un controllo privato, né pubblico istituzionale. Aziende di proprietà collettiva, attraverso l’istituto delle fondazioni possono essere gestite e controllate con assemblee pubbliche. L’assemblea pubblica diventa luogo di confronto e discussione, luogo decisionale, luogo di democrazia diffusa, partecipata, luogo di autogestione ed infine luogo di autogoverno nel momento in cui tutti i servizi di interesse pubblico verranno controllati dalle fondazioni e le istituzioni pubbliche non avranno più ragione di esistere.
Propositi per la rivoluzione economica
Il primo passo della rivoluzione economica è quello di autofinanziare la nascita di una fondazione a gestione collettiva che sia capace di iniziare una prima attività economica. La fondazione deve operare a livello comunale ed ogni paese o città deve avere la sua fondazione di riferimento mentre città più estese e popolate è auspicabile che arrivino ad avere più fondazioni.
L’attività economica collettiva
L’attività economica, non essendoci la figura imprenditoriale che trattiene per sé la maggior parte degli introiti, deve essere avviata con l’aiuto e il supporto del movimento intero, pagate le spese gestionali e stipendi adeguati, e sopra la media per chi lavora nell’azienda, i profitti rimanenti vanno a costituire il “capitale rivoluzionario”, un fondo che servirà all’innesco di una reazione a catena, alla diffusione della trasformazione sociale.
Il capitale rivoluzionario che finirà nella cassa della fondazione servirà ad ampliare l’attività esistente inglobando più lavoratori nel progetto e assicurandosi di avere un impatto più incisivo nell’economia e nei conseguenti introiti aziendali oppure serviranno ad aprire nuove attività.
Capacità rivoluzionaria
Man mano che la fondazione, e quindi la collettività, gestirà più aziende e la sua capacità rivoluzionaria sarà maggiore, il progetto rivoluzionario sarà più concreto diventando esempio pratico delle possibilità di emancipazione delle masse e di realizzazione di una società realmente democratica attraverso le pratiche autogestionarie. La fondazione a questo punto potrà contribuire anche e soprattutto economicamente, alla costituzione di altre fondazioni nelle città vicine in modo da andare a costruire filiere di produzione e distribuzione completamente autogestite.
Il ruolo delle fondazioni
La fondazione potrà anche finanziare l’apertura di botteghe ed esercizi commerciali che diventino punti di distribuzione della filiera e dei prodotti delle aziende controllate. Le attività finanziate ed aperte, seppure controllate da singoli o gruppi con rapporti lavorativi orizzontali, restano di proprietà della fondazione e, quindi, gestite dalla collettività. Le fondazioni potranno anche acquisire attività e fabbriche già esistenti convertendole ad una gestione orizzontale e collettiva. Potrà oltremodo, gestire qualsiasi tipo di attività, persino giornali e tv andando ad operare, come un virus, una trasformazione complessiva della società non lasciando spazio alcuno a sfruttamento di individui e risorse.
Quando la crisi delle istituzioni, generata e voluta dal capitalismo, sarà così forte da non poter più, le amministrazioni pubbliche, controllare ospedali, scuole, acquedotti e servizi pubblici di ogni genere, le fondazioni dovranno essere pronte per farsi avanti e acquisire o prendere in gestione queste strutture garantendo ai cittadini tutti i servizi essenziali e di interesse comune.
La rivoluzione economica in atto
A questo punto la rivoluzione economica è fatta. Tutte le attività economiche e lavorative, da avere un controllo privato o pubblico passano ad un controllo collettivo. Le assemblee pubbliche delle fondazioni andranno a sostituire la funzione decisionale che attualmente hanno le pubbliche amministrazioni per cui i governi, locali o nazionali, non avranno più senso di esistere. Saranno le assemblee pubbliche delle fondazioni collettive a decidere se, quando e come riparare una strada, costruire un ponte, installare nuove illuminazioni nelle strade eliminando così definitivamente la corruzione che è un fenomeno naturale e fisiologico delle democrazie rappresentative in cui i poteri sono concentrati e delegati.
Dallo stato sociale alla socialità collettiva
Come scriveva un lucido, razionale e intuitivo Berneri all’inizio del ‘900, la rivoluzione non può abbattere lo stato con tutte le sue strutture sociali che dispensano pensioni, stipendi per i dipendenti, cure sanitarie gratuite, istruzione pubblica e gratuita (allegato 2). La rivoluzione deve essere lenta e graduale e deve andare sostituendo tutte quelle forme di potere accentrato con forme di partecipazione collettiva al potere. Berneri scriveva già di “comunalismo libertario”, un concetto molto simile al municipalismo libertario elaborato da Murray Bookchin.
Socialità collettiva
Attraverso la rivoluzione economica anche quelle forme di assistenza pubblica definite “stato sociale” non vengono eliminate ma controllate collettivamente, attraverso le fondazioni, si trasformano in una sorta di socialità collettiva. Le fondazioni dovranno, quindi, occuparsi anche di assicurare adeguato accesso al potere economico a chi per questioni fisiche, di età, di infortuni non potrà prestare il proprio lavoro.
Un’accusa che potrà essere rivolta a questa rivoluzione economica è il dubbio che le fondazioni siano realmente capaci di pagare stipendi ai lavoratori delle aziende e poi nelle fasi più inoltrate della rivoluzione stessa di pagare addirittura pensioni. La risposta è semplice ed intuitiva: se con l’attuale sistema, che vede la maggior parte delle ricchezze concentrate nelle mani di poche persone, riesce a reggersi, come può un sistema che vuole ridistribuire il potere economico e quindi la ricchezza stessa, la moneta stessa, attraverso forme di gestione collettiva di ogni attività economica, non riuscire a sostenere l’accesso degli individui al potere economico?
Come scriveva a suo tempo Carlo Cafiero, vi sarebbe abbastanza ricchezza, abbastanza potere per tutti.