Lavorare stanca (ancora)

Lavorare stanca

Pubblicata per la prima volta nel 1936 – mentre Pavese si trova al confino a Brancaleone Calabro – la raccolta poetica “Lavorare stanca” racchiude i temi che resteranno centrali in tutta la sua opera. Con i versi lunghi, di tredici o sedici sillabe, e uno stile semplice e diretto in contrasto con quello dell’epoca, Pavese apre la strada a un nuovo mondo narrativo, in cui le poesie hanno l’aria di racconti, microstorie. Nonostante i riferimenti a luoghi a lui conosciuti, l’autore dona a ogni elemento – le stelle, l’alba, le colline, ma anche la città, gli uomini e le donne – una dimensione mitica, universale, e fa emergere tra le pagine fitte, distinta, la presenza di un «Io» ingombrante, pur se mimetizzato negli altri. Un viaggio che evoca con nostalgia non solo il passato, ma anche un futuro su cui egli già proietta tutto il senso di inadeguatezza e l’irrimediabilità della propria solitudine. Prefazione di Simona Mingardi.

Rileggere Pavese come se fossimo noi a tornare a casa la sera.

Non ci può essere migliore recensione, per un libro di poesie, se non quella che lo stesso autore scrive. Probabilmente questo lo sapeva anche Pavese che nei due testi in appendice alla sua opera spiega perfettamente le percezioni che la lettura mi aveva dato. In particolare a pag. 120 leggiamo:

Definito “Lavorare stanca” come l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che sevono solo a gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza […]

C’è una stanchezza che non passa. Non quella delle braccia, ma quella che scava dentro e non trova nome. Quella di chi lasciava le Langhe per la scintillante città e le sue promesse. Quella di chi si sottrae alla carezza della brezza marina e allo sguardo delle esperidi per un nebbioso posto fisso (non parlo di Pavese). Ma anche di chi è strappato alle proprie radici dall’istinto di sopravvivenza. Pavese siamo noi nel tempo e nello spazio alla ricerca spesso di un orizzonte che si sottrae ad ogni passo. E che per ogni passo in avanti che ci sembrerà di fare non sarà mai più vicino rispetto al punto dal quale eravamo partiti. È come se il percorso obbligato di crescità che la modernità ci ha imposto non facesse altro che allontanarci dall’essere umani mentre ci affanniamo a diventare persone.

La città mi ha insegnato infinite paure

Poesie e poetica

La sua lingua è nuda, prosastica, quasi sgraziata. È il contrario della poesia come la immaginavano gli altri: Pavese non vuole consolare, vuole far vedere.

C’è il lavoro, sì, ma dietro il lavoro c’è l’assenza. L’impossibilità di stare davvero con gli altri, la solitudine come condizione naturale. In questa raccolta, l’uomo è un animale separato: guarda, ricorda, desidera, ma non si muove più. Il mito — quello che Pavese inseguirà sempre — qui è solo un’eco lontana, un sogno che non sa ancora di esserlo.

Cosa rimane

Eppure qualcosa resta. Nella polvere delle Langhe, nei paesi immobili, nei versi che sembrano camminare e non arrivare mai, c’è una specie di pietà. Pavese non giudica ma osserva. La sua poesia è stanca ma lucida, come chi ha smesso di cercare risposte e continua comunque a fare domande.

La vite, la vite e la donna

Come già egregiamente espresso nella recensione de “La Luna e i falò”, scritta da Cristina Desideri per il nostro blog, l’uva e il lavoro che la circonda è un tema centrale anche in Lavorare stanca. Una vite che è la vita stessa che assorbe e rimanda le personalità di chi gli vive intorno, come fa con i profumi e gli aromi delle erbe che crescono nelle sue vicinanze. Una vite che si confonde poeticamente con il desiderio e quindi, per Pavese, con la donna. Un appagamento fugace di felicità terrena e di senso di libertà che si può raggiungere talvolta in un orgasmo etilico o erotico.

Questa raccolta, infine, è un bazar di profumi e sensazioni. Talvolta disturbanti. C’è quasi bisogno, tra una poesia e l’altra di annusare dei chicchi di caffè, come facevano alcuni profumieri del passato, per resettare il naso e predisporlo a una nuova esperienza sinestetica.

La casa editrice

Una menzione di merito va certamente alla casa editrice “4 Punte Edizioni” che ha scelto di ripubblicare questa raccolta. I chiodi a “4 Punte” erano uno strumento di sabotaggio e resistenza usato dai partigiani. I libri “resistenti” che fanno parte della collana #ilTrenoVersoSud ci rinnovano la necessità di sabotare con ogni mezzo controculturale l’egemonia indifferente e repressiva che troppo spesso si respira in questo paese.

L’eccellente prefazione di Simona Mingardi riesce a spaziare in poche righe tra i sentimenti e le opere di Pavese, aiutandoci a comprendere la raccolta.

Un piccolo aneddoto

Cesare Pavese fu vittima della repressione fascista che lo costrinse al confino, presso Brancaleone (RC) tra il 1935 – 36′.

Lo scorso agosto, durante un evento di presentazione di una mia raccolta di poesie svoltasi a Bova Marina (RC), ho avuto modo di conoscere il fratello di un altro confinato politico antifascista. Anch’egli confinato sempre a Brancaleone, nello stesso periodo di Pavese. Il fratello mi ha raccontato che Pavese, essendo un ospite di “spicco”, riceveva talvolta delle sigarette o altre piccole gentilezze dai carcerieri ma non era solito condividere tali “gioie” con gli altri reclusi che certamente non apprezzavano questa caratteristica. Una piccola storia nella storia che certamente nulla toglie al grande poeta ma ci dona una punta di colore nell’affresco del poeta.

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