Perché nel Nord, la parte più industrializzata e con più elevato tasso di scolarizzazione del Paese, hanno comandato i Bossi e ora comandano i Salvini? Probabilmente a causa della fine della prima Repubblica, della maggiore desindacalizzazione, della disaffezione della politica in quest’area. Questi potrebbero essere i motivi principali. Ma la mobilitazione collettiva, l’eterogeneità della base sono difficili da spiegare: c’erano leghisti che volevano l’autonomismo, altri pensavano che la Lega difendesse la loro etnia, i loro interessi, la loro tradizione, altri ancora erano affascinanti dalla leadership carismatica di Bossi. Il nucleo principale della politica leghista era rappresentato dallo slogan “Roma ladrona, la Lega non perdona”. La Lega si è affermata grazie al populismo, all’antipolitica, facendo leva sulla rabbia, sul disagio presenti anche nel Nord. Con la politica dell’ognuno a casa sua, del prima gli italiani ha cercato di creare un’identità nordica e naturalmente per farlo aveva bisogno di creare dei nemici (Roma ladrona, i meridionali, gli immigrati). La Lega ha sfruttato la xenofobia, alimentandola ulteriormente e cercando di far diventare capri espiatori i cosiddetti diversi. Eppure un fondo di verità c’era: i politici a Roma erano inefficienti, corrotti e immobilisti, al Sud c’era la mafia (tra l’altro presente anche nel Nord), alcuni immigrati erano manovalanza della criminalità organizzata. I cittadini del Nord onesti e operosi non si sentivano più rappresentati dalla partitocrazia, né tantomeno da un centrosinistra che si professava riformista, ma che aveva ancora tra la classe dirigente molti veterocomunisti. Gli artigiani, i commercianti, i liberi professionisti, i piccoli imprenditori non si sentivano rappresentati da un centrosinistra che li vedeva solo come capitalisti ed evasori da tassare. Ma neanche gli operai del Nord si sentivano e si sentono rappresentati dal centrosinistra. Un altro problema era ed è quello della sicurezza: il centrosinistra minimizzava il problema, proponendo il permissivismo, l’accoglienza totale senza se e senza ma, sostenendo che molto dipendeva dalla percezione soggettiva dei cittadini, mentre la Lega secondo una logica identitaria, discriminatoria, emotiva sosteneva che la colpa era degli stranieri, dei meridionali. Il razzismo leghista nei confronti dei meridionali aveva anche profonde ragioni economiche: negli anni Novanta il Nord non aveva più il grande bisogno di forza lavoro dal Sud che aveva negli anni sessanta e settanta. La migrazione interna era dovuta alla disoccupazione nel Sud e non più necessariamente alla grande offerta di lavoro delle grandi industrie del Nord. Non c’erano più dirigenti nordici ad aspettare alla stazione operai meridionali: il mercato del lavoro era cambiato. Il triangolo industriale Genova-Torino-Milano non viveva più il boom economico. La Lega ha avuto perciò gioco facile, grazie alla miopia dei vecchi partiti, nello slatentizzare il razzismo già presente nella società del Nord. La società nordica diventava multietnica, avveniva il crogiolo, il melting pot, però la vera integrazione non era ancora avvenuta. La diversità era vista dal centrosinistra solo come arricchimento, senza cogliere anche i problemi che ne derivavano. La Lega sfruttava le resistenze psicologiche, le chiusure mentali, i pregiudizi, il ritardo culturale di una fetta di cittadini di fronte a un cambiamento epocale, che comportava anche l’immigrazione. Dopo il crollo delle Torri gemelle si acuiva ancora questa contrapposizione ideologica: chi gridava allo scontro di civiltà come Oriana Fallaci, chi proponeva amore incondizionato, spiritualità e multiculturalità obbligatoria come Tiziano Terzani. Non solo ma la Lega ha saputo cavalcare l’ondata di sdegno e la voglia di rinnovamento dopo Mani pulite (Bossi faceva politica prima di Tangentopoli, racimolando pochissimi voti), che ha distrutto i vecchi grandi partiti. Se poi negli anni settanta imprenditori come Gianni Agnelli guardavano con simpatia il centrosinistra perché poteva arginare meglio la conflittualità sociale e una volta al governo poteva fare con minore tensione e meno polemiche riforme economiche impopolari ma necessarie, se negli anni ottanta alcuni imprenditori avevano come referenti politici i socialisti di Craxi, dopo Mani pulite alcuni imprenditori nordici si identificavano con una forza nuova che sembrava non avere niente a che spartire con il solito consociativismo italiano e che poteva rompere gli schemi. C’era grande voglia di nuovo allora e la rabbia era tanta: così il leghismo divenne fideistico, vennero inventate entità inesistenti (la Padania), vennero proposti quando il federalismo, quando per i più esagitati la secessione. La Lega era fatta da politici che venivano dal popolo nordico e sapevano parlare alla gente con un linguaggio chiaro e diretto, che evitava accuratamente il politichese delle convergenze parallele. C’è da dire che i leghisti furono bravi a territorializzare la loro forza politica e a prendere il posto della Dc. L’entrata in politica di Berlusconi e l’alleanza con la Lega diede grande forza mediatica ai leghisti: allora avevano passaggi televisivi nelle reti nazionali e non più solo comizi in piccoli paesi, interviste nel piccolo giornale di partito, come agli inizi. C’è da considerare anche che la Lega aveva come ideologo un intellettuale molto lucido e intelligente come Gianfranco Miglio. Non riporto poi le illazioni sui presunti finanziamenti alla Lega, che non sono mai stati provati. Come se non bastasse bisogna tener presente anche l’analisi di Vittorio Foa, illustrata nel saggio “Questo Novecento”: negli anni Novanta si verificarono da un lato il neoliberismo e l’individualismo, mentre dall’altro in Italia si assistette alla crisi del collettivismo, alla crisi della socialdemocrazia e del welfare. Infine c’è stato il solito girellismo all’italiana; i nostri connazionali calcolavano dove tirava il vento e poi salivano sul carro dei vincitori.
Ma perché il Nord è così malamente (sempre a mio modesto avviso) rappresentato? Perché il Nord non ha grandi statisti, amministratori, leader veramente competenti? Sembra quasi che i politici che vincono al Nord non siano validi e preparati, ma solo folcloristici. Perché questa crisi di rappresentanza politica nel Nord, la zona più ricca del Paese? Una ragione è che nel Nord le persone valide e colte cercano di lavorare nel privato, fanno carriera come professori nello Stato, fanno la libera professione. Non si mettono in politica. Hanno molto da perdere. Hanno altro da fare. La politica nostrana è una vetrina, ma, proprio come la partecipazione a una trasmissione televisiva, bisogna mettersi totalmente in gioco, rischiare crisi reputazionali quando molti imprenditori e cosiddetti lavoratori della conoscenza nordisti non vogliono esporsi pubblicamente perché odiano le luci della ribalta e perchè avrebbero molto da perdere. Insomma chi glielo fa fare? Probabilmente hanno di meglio da fare! Inoltre non solo non si prestano alla politica per questioni di mentalità e di maggiori opportunità lavorative ma forse queste persone con competenze elevate non sarebbero neanche rappresentative, perché nel Nord vince chi sembra tutelare gli interessi dell’impresa privata, parlando alla pancia della gente e facendo leva sull’emotività, sulla rabbia. Insomma chi lo fa fare a professionisti, imprenditori, professori universitari di candidarsi, rischiando antipatie e ritorsioni, visto che la politica italiana è sempre stata divisiva? Non solo ma il profondo Nord ha già emesso la sentenza: “in politica sono tutti ladri”. Fare politica nel Nord significa per molti sporcarsi le mani. Una persona colta e onesta per fare carriera politica nel centrodestra del Nord dovrebbe cavalcare l’onda dell’antipolitica, della protesta. A ogni modo c’è anche questo problema di fondo, che riguarda la cosa pubblica italiana e non solo nordica: una persona misurata e ponderata, ispirata dal buon senso e aliena da ogni compromesso avrebbe scarse probabilità di diventare un leader di partito. Nel Nord scende in politica chi ha poco da perdere o da fare. Quando vivevo nel Nord alcuni ripetevano un loro mantra: “chi sa fa”. E lavorare in politica per loro non era fare. In Lombardia e nel Nord-Est regna il calvinismo. La realizzazione nel lavoro è quasi indice di elezione divina, come ci insegna Max Weber ne “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Ma pochi nel Nord efficientista e produttivo considerano la politica un vero lavoro. Succede così che nel Nord c’è una classe politica, a mio avviso, impreparata, con poca esperienza e poche conoscenze, che non è rappresentativa veramente della reale classe dirigente di questa macroregione, che lavora nelle aziende, negli studi, nelle scuole, negli ospedali, nelle università, nel terzo settore. Non solo ma nel Nord c’è molto pragmatismo, molto efficientismo; c’è meno umanesimo (per quanto le maggiori case editrici siano molte nel Nord) e di conseguenza meno cultura politica o quantomeno chi ha cultura politica non viene adeguatamente valorizzato. Infine il centrosinistra non riesce a capire i reali problemi del Nord e non si sa proporre come valida alternativa. Se il centrodestra rappresenta malamente il Nord, il centrosinistra non lo sa capire, non sa intercettare il malessere dei cittadini.
Sui possibili motivi dell’ascesa della Lega e dell’inadeguatezza della classe politica leghista
Parole chiave:
Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.
Ultimi articoli di Storia
Bologna nel primo dopoguerra teatro di una guerra civile Il contesto storico e l’importanza di questo
Di Riccardo Renzi1 Contesto storico e divisione delle carriere Molto in questi tempi si sta parlando di
di Silvio Marconi Spesso si riducono la disaffezione elettorale, i voltagabbanismi e le scelte di larga