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I miti positivi funzionali all’egemonia culturale
Le forze dominanti, in ogni epoca, sono tali rispetto alle classi subalterne attraverso un intreccio, ben studiato da Gramsci fra oppressione/repressione e costruzione del consenso basata su diversi strumenti per produrre egemonia; non è stupefacente, quindi, che letteratura, teatro, cinema, tv, cerimonie, monumenti, moduli del sistema educativo, toponomastica, ecc. abbiano contribuito e contribuiscano a forgiare miti positivi funzionali a tale egemonia, come nel caso di certi eroi risorgimentali o di certi personaggi dell’Impero Romano.
Poco conta che Giulio Cesare fosse in realtà un violatore di tutte le leggi della stessa Roma, un golpista, un genocidario, che Augusto non gli fosse da meno, che Francesco Crispi fosse un voltagabbana passato dal repubblicanesimo radicale al ruolo di aggressore coloniale e di massacratore di proletari al servizio dei Savoia: a loro o ai loro simili si sono intitolati licei e piazze, monumenti e dedicati opere teatrali apologetiche, opere letterarie, film ed altro.
L’egemonia culturale attraverso le pellicole di Hollywood
Al tempo stesso, i medesimi strumenti sono e sono stati usati (con poche eccezioni figlie della crisi dell’egemonia coloniale e imperialista) per criminalizzare agli occhi delle classi subalterne tutti coloro (e specialmente quelli extra-occidentali) che si sono in vario modo opposti al dominio di classe o coloniale o imperialista.
Per un film dedicato al patriota libico impiccato dai colonialisti italiani Omar Al Mukhtar (Il Leone del deserto, coproduzione italo-libico-statunitense), peraltro inibito dalla circolazione nella democratica Italia, o per pochi film dedicati al genocidio degli autoctoni delle Pianure nordamericane (come Soldato Blu) Hollywood ha inondato il mercato e l’immaginario mondiale di una valanga di pellicole anche di grandi registi e con grandi attori centrate sulla “barbarie” degli “Indiani”, contribuendo assieme a romanzi, fumetti, giocattoli, cartoni animati e gadgets a forgiare il mito del West in senso razzistico ed antistorico operando sulle persone fin dalla prima infanzia. Lo stesso è avvenuto con l’orrenda sinofobia delle opere dedicate al terribile Fu Manchu; un’azione che ha segnato nel profondo, assai più di quanto non si creda comunemente, le coscienze di centinaia di milioni di persone dentro e soprattutto fuori degli USA.
La costruzione di miti positivi sui soggetti antagonisti
Meno scontato e forse più efficace è il fatto che le classi egemoni hanno saputo e sanno, con poche eccezioni, orientare perfino la costruzione di miti in positivo attorno a soggetti antagonisti rispetto alla cultura di quelle classi, in due modi convergenti: la focalizzazione dell’attenzione su alcune realtà e la rimozione o sottovalutazione di altre.
Quando Kubrick, col contributo anche di intellettuali colpiti dal maccartismo ed accusati di “comunismo” diede vita al grande capolavoro Spartaco, venne accusato di aver fatto un film sovversivo che esaltava uno schiavo ribelle; quel film contribuiva (specie in un’America che lo ignorava) a focalizzare l’attenzione sulla rivolta schiavile che Spartaco guidò e seguiva in questo una tradizione estranea al mondo anche “progressista” statunitense ma non a quello europeo, tanto che già alla fine della Prima Guerra Mondiale in ambito tedesco i comunisti fecero di Spartaco il riferimento per il loro movimento (Spartakus Bund) e furono detti per questo “spartachisti”.
Spartaco ed Euno nelle guerre servili
Ma Spartaco, in realtà, non guidò le masse di schiavi, gladiatori e contadini immiseriti a cercare di distruggere il sistema schiavista e agrario-latifondista romano, bensì a cercare di fuggire dalla Penisola Italica, possibilmente per raggiungere le mitizzate “terre d’origine”, balcaniche o centroeuropee; ben diverso era invece il progetto di altre due rivolte (classificate nell’ambito delle “Guerre Servili” dagli storici romani) che produssero secondo Cecilio di Calatte (ex-schiavo diventato retore al servizio del potere romano) oltre un milione di morti.
Tali rivolte si ebbero in quella Sicilia in cui i Romani avevano imposto il sistema del latifondo schiavistico e la prima, guidata da Euno scoppiò in significativa concomitanza (a riprova dei canali sotterranei di comunicazione mediterranea fra oppressi, specie attraverso i traffici marittimi) con quella delle genti iberiche, che si concluse con la presa romana di Numanzia nel 133 a.C. .
Euno, descritto da Diodoro Siculo (sulla base del racconto di Posidonio, egli stesso un ex-schiavo), era uno schiavo siriaco con capacità magico-taumaturgiche e il progetto che animò la sua rivolta, scoppiata nella zona della attuale Enna, era quello di distruggere il potere romano e creare uno “stato libero”, di cui egli si proclamò re e che arrivò ad avere fabbriche di armi, coniazione di monete, una corte sul modello orientale, un’attività di propaganda attraverso l’uso del teatro e che vide la partecipazione convinta dei contadini liberi immiseriti (Diodoro parla di oltre 200.000 aderenti); le truppe romane vennero ripetutamente sconfitte in battaglia e rivolte scoppiarono in Attica e perfino dentro Roma. E se successive spedizioni militari romane infine ebbero ragione dei ribelli che vennero massacrati a Enna, Taormina, Morgantina fu solo grazie al tradimento: ad Euno fu riservata la morte divorato dai pidocchi in carcere.
La seconda guerra servile con Salvio e Atenione
Trent’anni dopo, a causa di una disapplicazione di un decreto che prevedeva la liberazione degli schiavi di Bitinia, costoro si ribellarono a Siracusa e furono la miccia per una rivolta su scala siciliana che nel suo riferirsi agli dei Palici tradizionali dell’Isola mostra il rapporto con rivendicazioni non solo schiavili; in questo caso il re degli schiavi ribelli (Salvio, indovino e suonatore di flauto) non fu autonominato come Euno ma addirittura eletto democraticamente.
Invece di rinserrarsi nelle città come Euno, Salvio adottò una tattica guerrigliera e accolse fra le sue fila numerosi disertori delle stesse truppe romane e lo stesso fece l’altro leader della rivolta nell’area fra Segesta e Lilibeo, Atenione, che venne però arrestato temporaneamente da Salvio che assunse il nome di Trifone; i Romani conseguirono qualche successo militare e uccisero Salvio/Trifone ma Atenione continuò a guidare la rivolta fino alla sua stessa uccisione ed allo sterminio dei ribelli e di innumerevoli famiglie di contadini che li avevano appoggiati.
Hollywood non accetta rivoluzionari
Non un libro, non un’opera teatrale, non un film, non un simbolo rivoluzionario moderno si ridanno a queste due rivolte siciliane e per un motivo: esse a differenza di quella di Spartaco non miravano alla fuga e tutto sommato al mantenimento dell’ordine romano dopo tale fuga, ma alla sua distruzione e sostituzione con un modello alternativo sia nei rapporti sociali, sia nei riferimenti religiosi (a divinità mediorientali o a quelle preromane sicule), sia in quelli culturali e questo gli intellettuali organici a tutti i poteri o anche quelli più progressisti come Kubrick, non avrebbero mai potuto trovare spazio per poterne parlare!
Il mito tra i pirati
Lo stesso avviene con la pirateria: letteratura (anche per l’infanzia), fumetti, opere teatrali, film, serie televisive grondano di avventure reali ed immaginarie dei pirati e dei corsari, spesso confusi fra loro volutamente nonostante che i primi fossero autonomi ed i secondi al servizio, come Francis Drake, di specifiche potenze statuali, ma si tratta solo dei pirati dei Caraibi di cui soprattutto in ambito statunitense ci si può permettere di lodare l’indipendenza, l’autonomia, il presunto individualismo, perfino rozze forme di democrazia perché consone al mito dell’homo americanus, magari oscurando l’egualitarismo, il welfare, i diritti degli equipaggi che puzzano troppo di “comunismo” o di ”anarchia”.
Ci voleva invece Fabrizio De Andrè per avere il coraggio e la capacità di cantare in positivo la storia (in Sinan Capudan Pasha nel disco Creuza de ma) citata solo da pochi storici moderni degli oltre quattrocentomila “rinnegati”, ossia Cristiani passati formalmente all’Islam sia dopo essere stati catturati da navi musulmane in mare o sulle coste, sia fuggiti di propria volontà dalle terre cristiane per andare a cercare fortuna in terra d’Islam e che spesso erano tanto poco “credenti” nell’una o nell’altra religione da abiurare fino a 3-4 volte se ricatturati dal nemico, come del resto proprio De Andrè nota nella sua canzone facendo dire a Sinan che a lui non interessa se bestemmiare “Maometto o il Signore”.
“Rinnegati” che non solo ebbero basi in tutte le coste nordafricane ove parteciparono, sotto il dominio ottomano, a forme di gestione urbana (accanto a gilde mercantili ed autorità religiose) simili a quelle delle stesse Repubbliche Marinare italiane, ma che diedero anche vita nelle Baleari o sulla Costa Azzurra a veri e propri esperimenti di autogoverno caratterizzati da una orizzontalità e da una democrazia diretta che non sarebbero dispiaciute agli anarchici catalani degli anni ’30…
Il mito tra gli schiavi in America
Lo stesso è avvenuto con la questione schiavista nelle Americhe; sono passati 150 anni di mitizzazione dell’azione armata antischiavista di John Brown (bianco), di lacrime sulla condizione degli schiavi neri negli USA, di racconti sulle fughe prima che si cominciasse a parlare dei quilombos, ossia zone in genere forestali in cui schiavi fuggitivi ed indigeni (ed aliquote di poveri contadini bianchi) costruirono nel Brasile schiavista esperimenti di resistenza e autogestione che a volte durarono decenni e talora non vennero mai schiacciati, e delle forme equivalenti di resistenza a Cuba o della rivolta dei Neri a Bahia nel XIX secolo, con un ruolo anche di nuclei di Africani islamizzati.
Ciò è avvenuto perché a lungo si è voluto far credere che da un lato la liberazione degli schiavi fosse stata solo il frutto della Guerra Civile Americana (combattuta sostanzialmente… dai bianchi!) e dall’altro che l’unica rivolta vittoriosa di schiavi fosse stata quella di Haiti, sfociata in regimi di terrore, in miseria e in instabilità secolare, dimenticando volutamente tutto il resto.
L’egemonia culturale
Questi sono solo tre fra i molti possibili esempi di come le forme effettivamente più radicali e davvero più antagoniste di opposizione ai poteri schiavisti, imperiali, coloniali siano sistematicamente rimosse non solo dalla Storia ufficiale dei dominatori ma anche dall’attenzione delle classi subalterne che quegli stessi dominatori riescono ad orientare attraverso e finché si garantiscono su di esse l’egemonia anche culturale.
Se è vero quanto diceva Bertolt Brecht, ossia “beato il Paese che non ha bisogno di eroi”, è anche vero che finché gli oppressi accettano di farsi scegliere perfino i loro miti e i loro eroi dall’oppressore e di permettere che ciò avvenga in mille modi verso i loro figli non hanno molte possibilità di liberarsi davvero.