Quella di Amina è una battaglia che appartiene a tutti e serve a tutti. Non è una battaglia di un’atea contro uno stato o un governo religioso. E’ una battaglia per la civiltà, per la libertà che dovrebbe essere garantita a tutti, credenti e non, e che dovrebbe interessare a tutti.
Entrando nello specifico, Amina Tyler è stata arrestata durante una manifestazione di salafiti che la ragazza voleva contestare nel giorno e nella città in cui avrebbero dovuto tenere il loro congresso. Precedentemente aveva sostenuto le campagne femministe Femen pubblicando su facebook foto a seno nudo che avrebbero attirato l’attenzione e l’ira dei musulmani più intransigenti.
Questa è la Tunisia, un paese che ha conosciuto una primavera troppo poco breve e che vive il suo autunno più triste: quello del fondamentalismo religioso che non riconosce e ammette l’autodeterminazione dei singoli cittadini, una maturità politica, la consapevolezza degli individui, la protesta politica attraverso azioni simboliche, la ribellione di una ragazza che chiede maggiori diritti per le donne.
Protagonista di questa storia e di questa battaglia femminista è il corpo di Amina che la stessa giovane ha, dapprima, usato per provocare e superare gli argini delle rigorose leggi islamiche; e poi incarcerato dallo stato e sulla cui incarcerazione si gioca la questione dei diritti delle donne in Tunisia, essendo la magistratura costretta a giudicare la gravità e la legittimità della protesta della ragazza. La sua scarcerazione aprirebbe un varco alle battaglie femministe.
Amina si dice atea e in quanto tale si rifiuta di dover obbedire alle leggi e usanze maschiliste del suo stato. Questa storia ha due aspetti che portano nella stessa direzione. L’aspetto politico-sociale della storia ci dovrebbe far riflettere sull’interferenza delle religioni sulle leggi dello stato, e la discriminazione che queste portano nei confronti di quei soggetti che non condividono fermento e spirito della religione predominante in un dato paese. La religione di stato finisce per diventare soffocante sia per credenti di altre religioni sia per individui atei o non credenti.
L’altro aspetto, quello spirituale-religioso, ci dovrebbe far riflettere invece sull’utilità dell’imposizione di pratiche, usi e costumi religiosi o sul divieto di altri comportamenti. La pratica religiosa dovrebbe essere sentita e spontanea; l’imposizione non porta a una consapevolezza spirituale degli individui praticanti. Gli esponenti religiosi temono che con regole meno severe il fervore religioso possa affievolirsi, non percependo la popolazione alcune pratiche come obblighi assoluti cui ottemperare. In realtà è proprio attraverso il rifiuto, la riflessione, la ribellione a pratiche ed obblighi ed attraverso la reale possibilità di esprimere pareri “non istituzionali” che si arriva a un sentimento spirituale maturo e consapevole.
Le prescrizioni religiose sono come quelle indicazioni senza troppe spiegazioni date dagli adulti ai bambini. L’opposizione atea o laica alle religioni di stato è simile, invece, al comportamento di un adolescente che rifiuta regole, leggi, consigli che provengono dalle istituzioni familiari, religiose e statali. Uno stato laico che lascia libertà di pensiero, espressione e di azione è come un individuo maturo che può scegliere cosa fare e quando lo fa, lo fa con consapevolezza e con forti motivazioni.
Oggi uno stato con una forte impronta religiosa nel suo apparato giuridico è uno stato puerile che non facilita la crescita dei suoi cittadini. Questi stati hanno bisogno di crescere attraverso la ribellione, la protesta e il rifiuto. Oggi la Tunisia e il mondo arabo hanno bisogno di Amina e di tante altre donne per crescere e vivere realmente e pienamente una rigogliosa primavera.