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Complessità dell’argomento e definizione di straniamento
Le cose sono complesse. L’argomento non è facile, anzi è cavilloso. Cercherò di argomentare senza perdere il filo, sperando di non finire in un vicolo senza uscita. Per straniamento si intende un rovesciamento di prospettiva, un capovolgimento di fronte, come scrivere un racconto dal punto di vista di un cavallo come fa Tolstoj o dal punto di vista di un alieno come fa Brown. In questi casi lo straniamento avviene perché il lettore si immedesima in un cavallo o in un alieno. Straniamento è ciò che ci fa vedere con occhi nuovi il mondo, ciò che ci fa andare oltre “l’automatismo della percezione”.
Prima obiezione: non c’è più niente che ci fa vedere con occhi nuovi il mondo. Seconda obiezione: non c’è più niente di nuovo né di inedito a questo mondo. Terza obiezione: ci pensa già la realtà con i suoi mutamenti improvvisi e imprevedibili a farci andare oltre “l’automatismo della percezione”. Quarta obiezione: gli straniamenti sono microscopici e rarissimi in un mondo in cui domina incontrastato “l’automatismo della percezione”. La realtà è più straniante di qualsiasi straniamento artistico. Il vero straniamento avviene nella realtà. La realtà è già “straniata”. Noi siamo già “straniati” (termine improprio per dire che siamo oggetti di straniamento).
Ma siamo più “straniati” dalla realtà o dall’arte? Cosa è che fa più presa? La realtà supera qualsiasi principio di non contraddizione. La realtà è ontologicamente contraddittoria. Anzi la realtà è che il mondo quotidiano ci estrania a forza di troppi straniamenti. Prima di tutto ci sono quelli che io chiamo gli straniamenti della realtà. In principio lo straniamento è nella vita di tutti i giorni. Anche lo straniamento nelle opere d’arte è mimesi della realtà, ne è una brutta copia. La natura, la realtà sono più creative di noi. Anche lo straniamento degli artisti imita la realtà. Mi chiedo: non ne abbiamo già abbastanza delle stranezze nella realtà? Perché aggiungere stranezza a stranezza?
Dico stranezza però sono riduttivo e bonario perché lo straniamento della realtà non è solo cosa insolita, ma anche dramma, tragedia, catastrofe. E poi siamo davvero sicuri che un capovolgimento di fronte porti a una verità capovolta, insomma a una qualsiasi forma di verità? E poi chi “strania” chi? Quando è che uno straniamento è davvero straniante? È il mondo o l’arte il vero artefice dello straniamento? Siamo certi che lo straniamento artistico non sia straniamento di uno straniamento? Duchamp, Piero Manzoni, Marina Abramović, Cattelan hanno prodotto straniamenti nell’arte. Sono riusciti nell’intento di provocare e far parlare di loro.
E poi? Quale apporto culturale significativo hanno dato? Quale tassello hanno aggiunto alla conoscenza artistica? Dovremo quindi accontentarci dell’arte che fa notizia sui giornali perché eccentrica e poi dopo qualche settimana si riduce già a un pourparler? Nessun straniamento ormai è “antimimetico”.
E se Platone non avesse ragione sulla mimesi?
Nella Treccani alla voce “mimesi” si trova scritto:
letter. – Propriam., imitazione. Il termine (anche nella forma traslitterata mìmesis) viene usato soprattutto nel linguaggio filosofico, dove acquista importanza con Platone il quale con esso designa la somiglianza delle cose sensibili alle idee; nella concezione platonica dell’arte, la mimesi è da condannare perché, imitando le cose, che a loro volta sono copia delle idee, si allontana tre volte dal vero. Nell’estetica aristotelica, mimesi acquista un significato positivo, come imitazione della forma ideale della realtà, per cui l’operare dell’artista diventa simile all’operare della natura. Ripreso nella critica letteraria contemporanea, il termine indica generalmente la rappresentazione di una realtà ambientale, sociale, culturale, ecc., attuata perseguendo a vari livelli (ideologico, stilistico, documentario, ecc.) l’obiettivo di una riproduzione il più possibile realistica e impersonale di tali realtà."
Tutto quindi proviene da Platone. Il resto ne è una conseguenza. Se aveva torto Platone avevano torto tutti gli altri.
Prima cosa: chi dice che Platone avesse ragione con il concetto di mimesi? E lo stesso Platone aveva ragione a distinguere nettamente natura e idee? Per Platone l’arte è “copia di una copia”. Se si prende alla lettera Platone tutto è mimesi nell’arte, anche ciò che oggi alcuni definiscono “antimimetico”. Seconda cosa: non facciamo il gioco delle tre carte, non professiamoci realisti della prima ora e poi faziosamente prendiamo a prestito i concetti platonici, dimenticandoci che con Platone entra in scena la metafisica o almeno viene esplicitata nel pensiero occidentale e che lo stesso Platone era il primo idealista. Non c’è opera d’arte che non sia mimetica. Anche le opere di fantasia. La verità è che non bisogna basarsi sul discrimine “mimetico/antimimetico”. Più semplicemente l’arte è rappresentazione del mondo o suo tentativo.
Mimesi e neorealismo
Allora se la mimesi non è valida bisogna scegliere a tutti i costi lo straniamento? Casomai il problema è l’opposto: le opere d’arte non corrispondono abbastanza alla realtà, non sono abbastanza mimetiche. Il neorealismo non era abbastanza reale. I dialoghi neorealistici non erano reali. E poi come riportare in modo oggettivo la comunicazione non verbale? Come riportare l’intonazione, ovvero la comunicazione paralinguistica? Questi erano i problemi della mimesi del parlato. Qualsiasi tentativo di documentarismo non raggiunge l’oggettività. Nel migliore dei casi c’è sempre un filtro intellettuale di troppo.
C’è sempre troppa mediazione. Non tutto poi può essere riportato fedelmente. Inoltre non c’è più niente che ci stupisce nell’arte. Davvero più niente. Dirò di piu: non c’è ormai quasi più niente che ci stupisce nel mondo. Penso a tutte le guerre, a tutti gli orrori, a tutta la povertà, ai bambini che muoiono di fame. Tutto ciò viene documentato e rappresentato nel mondo in tempo reale con il giornalismo, con i mass media. Cosa può fare l’arte? E se l’arte fosse innocua o addirittura di troppo? Oramai ci siamo abituati. Ci abbiamo fatto il callo.
Niente ci sorprende ormai
Obiezione contro qualsiasi forma di straniamento: l’uomo si abitua a tutto e nessuno più è in grado di guardare con occhi nuovi il mondo; non c’è più nelle persone l’istanza di un uomo nuovo né di un mondo nuovo. Ricordo quando le prime persone che videro il cinema fuggivano via vedendo un treno in corsa. Oggi ci siamo abituati a tutto oppure forse nessuno è più in grado di inventare nuove forme d’arte o nuove espressioni artistiche in grado di spiazzare il fruitore.
Comunque se siamo avvezzi a ogni nuova bruttura nel mondo perché l’arte dovrebbe stupirci? Niente ci sorprende. Niente ci lascia stupefatti. Non ci sorprende più dopo migliaia di anni di civiltà occidentale quello che l’uomo può fare nel bene o nel male. Lo choc, lo straniamento poi sono spesso artefatti. C’è l’intenzione a tutti i costi di essere originali e di stupire. Ciò è una forzatura. È tutto troppo studiato a tavolino. Niente o poco è naturale. Tutto troppo ideologico. Quindi ne consegue un’altra obiezione allo straniamento: lo straniamento è troppo intellettualistico, per come è stato utilizzato negli ultimi decenni. Forse tutta l’arte del Novecento è troppo intellettuale.
E se poi la mimesi fosse davvero straniante e lo straniamento invece mimetico? Lo straniamento e la mimesi sembrano due polarità opposte, due termini contrapposti. In realtà si richiamano e si compenetrano in una vera opera d’arte. Semplificando potremmo affermare che la mimesi è un elemento della tradizione e lo straniamento un elemento dell’innovazione, ma è una volgarizzazione del concetto. Entrambi sono sempre esistiti nell’arte, anche se inizialmente nessuno aveva dato loro un nome. Perciò niente di nuovo sotto il sole. Cosa dovrebbe prefiggersi un artista? Il bello, il buono, il vero? Il punto allora è il seguente: la realtà, alla quale non si può non richiamarsi, è il fine o il mezzo? Probabilmente comunque nemmeno l’Apocalisse ci stupirebbe. Probabilmente oggi stiamo già vivendo l’Apocalisse e non siamo affatto stupiti.
L’artista “anarchico”, quantomeno anarcoide o comunque uno spirito libero
L’artista dovrebbe cercare la verità, non spararla più grossa o essere più sensazionale possibile per stupire. A mio avviso ogni artista dovrebbe essere anarchico in senso lato, non necessariamente in senso politico: dovrebbe essere libero interiormente, fare ricerca a 360 gradi, coltivare l’utopia o almeno la speranza. Nell’arte dovrebbe dominare uno spirito non dico anarchico ma anarcoide, ci dovrebbe essere un senso di libertà imminente, insopprimibile. Fare ricerca ha come presupposto essere antidogmatici, essere aperti al dubbio, non essere mai certi di niente. In fondo come avere certezze assolute in un mondo così complesso?
Questo per quanto riguarda il mondo esterno. Ma anche l’autoconoscenza ha poche leggi, dato che una gran parte del nostro Sé è inconoscibile. Sia dentro che fuori, sia nell’interno che nell’estrerno si brancola nel buio. Spesso facciamo molte teorie, ma la verità è lontana. Non a caso Russell Hanson definisce il modo umano di crearsi aspettative e poi fare ricerca come “occhiali dietro agli occhi”.
Lo choc, ovvero niente di nuovo sotto il sole
Sono poca cosa le poetiche dello choc: essere epigoni della neoavanguardia significa appartenere lo stesso alla retroguardia ormai. Non c’è niente di nuovo.
È vecchio il modo di porsi, di atteggiarsi nei confronti degli altri della realtà, così come non è nuova la supponenza e il senso di superiorità di taluni. Ho la vaga sensazione che qualsiasi provocazione sia fine a sé stessa. Ne abbiamo già viste di tutti i colori. Non credo che oggi possano più venire fuori dal cilindro di qualcuno grandi opere d’arte, come la Divina Commedia, e anche se vi fossero nessuno avrebbe più la forza di imporle sul mercato. È molto difficile l’avvento di opere che heideggerianamente creino mondi, che ci dicano qualcosa di veramente nuovo sul mondo. Anzi forse è proprio chi sceglie la tradizione senza preoccuparsi troppo di stupire il nuovo che avanza.
In un mondo in cui tutti vogliono stupire chi cerca di aggrapparsi, di rifarsi alla tradizione può essere una novità. Forse sono il nuovo oggi coloro che non ricercano a tutti i costi il nuovo, come fanno invece in molti. Anche rinnovare la tradizione può essere cosa buona e giusta o comunque del tutto legittima. L’artista deve essere libero di creare, di andare in una direzione o nell’altra, di spaziare, come di rimanere sempre fedele a sé stesso. Ognuno poi abbia la sua poetica, ma ci dovrebbe essere il rispetto delle poetiche altrui.
Sulla comunità poetica
Oggi invece alcuni vogliono far diventare legge la loro poetica (poco importa se ad essa siano o meno fedeli nella loro poesia in pratica). La poesia contemporanea diviene perciò una grande scuola di poesia, basata sul sapere iniziatico e sulla distinzione tra allievo e maestro. Mi sembra che due siano le forze che impongono le regole poetiche: il principio di autorità e la legge del gruppo, che diventa cricca, che a sua volta diventa branco. La comunità poetica dovrebbe essere più aperta e democratica. Nessuno dovrebbe cercare di prevalere sull’altro. Non ci dovrebbe essere sopraffazione. Forse è sempre stato così; forse chiedo troppo.