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Di Riccardo Renzi1 Nota alla Lettera ai Romani di S. Paolo Federico Renzi2
Introduzione alla Lettera ai Romani (a cura di Federico Renzi)
Per affrontare tale tema c’è da chiedersi se il nostro linguaggio ha corrispondenza con quello biblico. La risposta è naturalmente negativa. Spesso, infatti, per comprendere ciò che è presente nelle sacre scritture si adopera un capovolgimento semantico. Uno degli esempi più noti di colonizzazione del testo biblico è quello rappresentato dalla Lettera ai romani di Paolo. I nostri vocabolari definiscono con una doppia accezione:
- Come virtù sociale per cui si riconosce e si rispetta il diritto di ciascun cittadino con l’attribuirgli quanto gli è dovuto secondo la ragione e la legge.
- Come il potere specifico di far rispettare la legge con provvedimenti adeguati.
Nell’Antico Testamento, si legge a proposito di Dio che: «Egli è giudice giusto, ogni giorno si accende il suo sdegno» (Salmo 7,12). In tale affermazione c’è un’equiparazione tra giustizia e sdegno. Dio punisce la colpa in coloro che lo odiano sino alla quarta generazione, invece dimostra il suo favore a coloro che lo amano (Esodo 20, 5-6). Fatta questa breve premessa sulla giustizia nell’Antico Testamento, andiamo ora ad esaminare la Lettera ai Romani: «Infatti non mi vergogno dell’evangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, tanto del Giudeo prima, quanto del Greco» (Lettera ai Romani, 1, 16-17). La versione aggiornata della CEI aggiunge un “poi” che non è presente nel testo originale ed è forviante poiché subordina i Greci ai Giudei. Il passo continua: «infatti la giustizia di Dio in esso si rivela di fede in fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà. In esso si rivela la giustizia di Dio». Ma cos’è questa giustizia dio Dio? A questo punto ci giunge in aiuto Lutero, che verso la fine della sua vita scrisse alcune pagine autobiografiche. Egli, presumibilmente parlando del 1515-16, scrisse: «In quell’anno avevo ripreso ad interpretare i Salmi e pensavo di essermi preparato meglio per avere intanto commentato l’Epistola ai Romani, ai Galati e agli Ebrei. Ero stato infiammato dal desiderio di intendere bene un vocabolo adoperato nell’Epistola ai Romani nel capitolo uno, ove è detto: “La giustizia di Dio è rivelata dall’evangelo”, poiché fino ad allora lo consideravo con terrore. Questa parola “giustizia di Dio” io la odiavo, poiché la consuetudine e l’uso che ne fanno abitualmente, tutti i dottori mi avevano insegnato a considerarla filosoficamente. Intendevo la giustizia, che essi chiamano formale o attiva, come quella per la quale Dio è giusto e punisce i colpevoli»3.
Analisi filologica e contestualizzazione della Lettera (a cura di Riccardo Renzi)
Quando Lutero fa riferimento ai dottori, e all’uso di quel passo dell’Epistola ai Romani nell’intesa della giustizia come retributiva. Chi sono questi dottori? Forse gli esegeti che hanno scritto prima di lui? Se si riferisce agli esegeti come Origene d’Alessandria, o San Tommaso d’Aquino, egli erra, poiché loro la giustizia divina non la intendono con tale accezione. L’altro problema legato a tale passo è l’interpretazione luterana della giustizia divina come giustizia passiva. Questa interpretazione è conforme alla lettera di Paolo? Oggi diremmo di no. Per comprendere tutto ciò è però necessario partire dal concetto di ira di Dio. Tale concetto nelle lettere di Paolo ricorre ben 11 volte, di cui nove nella sola Lettera ai Romani. La giustizia di Dio si presenta, secondo Paolo, proprio come alternativa rispetto all’ira. Dunque, l’ira di Dio è in prima battuta. Esplicativo è il versetto 18 del capitolo primo della Lettera ai Romani: «Infatti si rivela l’ira di Dio dal cielo su ogni empietà e ingiustizia di uomini, che trattengono la verità dell’ingiustizia». In latino l’ira di Dio che scende dal cielo è resa meglio: «Revelatur enim ira Dei de caelo super omnem impietatem et iniustitiam hominum, qui veritatem in iniustitia detinent..»4. L’ira di Dio si palesa sempre dal cielo. Tale testo può richiamare il Salmo 76, 8-9: «Tu sei terribile! Chi ti resiste quando si scatena la tua ira? Dal cielo fai udire la sentenza e sbigottita la terra tace». Quella di Dio è una sentenza divina e non umana. Ci troviamo di fronte a un concetto veterotestamentario, poiché tale concetto d’ira è di derivazione dall’Antico Testamento, Paolo lo ha appreso attraverso le sacre scritture giudaiche. Per comprendere però il contenuto di tale concetto è necessaria una digressione che vada a contestualizzare la Lettera ai Romani. L’epistola fu con molta probabilità composta mentre Paolo si trovava nella casa di Gaio, a Corinto. Trascritta verosimilmente dall’amanuense Tertius (Terzo), è datata fra il tardo 55 d.C. e la prima parte del 57. Consta di 16 capitoli, ma esistono versioni con solo i primi 14 o 15 capitoli, circolate in un primo tempo; alcune di queste versioni mancano di ogni riferimento ai destinatari originali, rendendola più generalista. Altre varianti testuali includono menzioni esplicite a Corinto come luogo di scrittura, e a Febe, una diaconessa della Chiesa di Cencrea, come latrice dell’epistola a Roma. Prima di comporre lo scritto, Paolo aveva evangelizzato le aree circostanti del Mar Egeo, ed era bramoso di portare il Vangelo in Spagna, un viaggio che gli avrebbe permesso di compiere una visita a Roma. Di conseguenza, l’epistola può esser compresa come un documento che sottolinea le motivazioni del suo peregrinare e dare modo alla chiesa di Roma di prepararsi alla sua visita5. I cristiani in Roma erano sia ebrei che gentili, e appare possibile che esistessero tensioni e frizioni interne tra questi due gruppi. Paolo, un ebreo ellenistico ed ex fariseo, sposta il suo obiettivo: imposta e provvede ad allestire un discorso che possa unificare i due gruppi e a intravedere nella Chiesa un corpo unico, pur riferendosi nel suo argomentare sia a specifici destinatari che al generale pubblico cristiano in Roma. Benché venga considerata un trattato di teologia, l’Epistola ai Romani rimane monca di altri temi affrontati da Paolo altrove. È universalmente accolta come il suo capolavoro, un’architettura di 7094 vocaboli greci, specialmente sul tema della Giustificazione e della salvezza eterna. Sia le chiese evangeliche che propendono per la sola fide sia coloro che sostengono la posizione della Chiesa Cattolica Romana – che la salvezza si ottenga sia attraverso la fede che le opere – traggono sostegno dall’epistola. Il riformatore Martin Lutero, nella sua traduzione in tedesco della Bibbia, aggiunse la parola “sola” (allein) al passo della lettera ai Romani al versetto 3.28, cosicché la giustificazione avvenga solo attraverso la fede6.
Dobbiamo inoltre interrogarci sullo scopo di tale lettera. Paolo scrisse la lettera ai cristiani romani in vista della sua progettata missione nella capitale dell’Impero. Il testo affronta alcuni temi chiave, che possono essere variamente articolati. Qual è l’atteggiamento giusto per l’uomo di fronte a Dio e alla Legge? Esisteva nel cristianesimo costituito una differenza fra credenti giudei e credenti gentili? Paolo con la sua lunga lettera mise chiaramente in risalto l’imparzialità di Dio sia verso Giudei sia verso i Gentili evidenziando come la fede cristiana e la misericordia di Dio siano ciò che ora rende possibile l’accoglienza di tutti nel cristianesimo. Un cristianesimo, quindi, imparziale e tollerante in cui l’amore adempie la legge. La lettera si rivolge alla comunità cristiana di Roma, che Paolo non aveva ancora conosciuto direttamente. Non si hanno dati sicuri sulla composizione di tale comunità al tempo della lettera; è probabile che all’inizio la componente giudeo-cristiana fosse prevalente, ma che dopo l’editto di Claudio i cristiani rimasti fossero quasi esclusivamente di origine pagana. I frequenti riferimenti ai “gentili” contenuti nella lettera confermano questa interpretazione, anche se non mancano indizi di una presenza giudeo-cristiana. D’altronde altre considerazioni avvalorano la tesi che la comunità cristiana di Roma comprendesse anche una componente ebraica. Non solo a Roma era presente una consistente comunità ebraica sin dalla conquista di Gerusalemme da parte di Gneo Pompeo Magno nel 63 a.C., ma proprio da questa lettera di Paolo si evince che quella comunità era composta da cristiani ebrei e non ebrei la cui fede era nota a tutto il mondo cristiano e la cui ubbidienza era nota a tutti. Svetonio, in un suo scritto nel II secolo, asserisce che durante il regno di Claudio (41-54) i giudei furono espulsi da Roma, per poi tornarvi in seguito, come indicherebbe l’esperienza dei giudei Aquila e Priscilla (Prisca) conosciuti da Paolo a Corinto e che al tempo del decreto di Claudio avevano lasciato la capitale. La lettera di Paolo indica chiaramente che quando la scrisse Aquila e Priscilla (Prisca) erano ritornati a Roma. Il teologo tedesco Gerd Theißen ritiene che una copia della lettera, oltre che ai romani, fu probabilmente destinata anche ai corinzi, con i quali Paolo prosegue il suo dialogo, e un’altra ancora fosse indirizzata ai cristiani di Efeso, ai quali è rivolto l’intero sedicesimo capitolo7.
Tornando al concetto dell’ira di Dio, ora che l’epistola è stata contestualizzata storicamente, questo è di chiara derivazione giudaica, richiama, infatti, quel Dio vendicativo e crudele dell’Antico Testamento. Dunque, la Lettera ai Romani è molto più vicina alla mentalità giudaica che a quella cristiana. In ebraico il termine corrisponde ad “af”, che all’origine sta a significare “naso, narici” e indica un suono onomatopeico, indica lo sbuffare emotivo di che si adira. L’ira di Dio nell’Antico Testamento è la risposta alle azioni dell’uomo che contrastano con la natura e con i comandi di Dio. Quello della Lettera ai Romani è un Dio similare a questo.
Tradizione filologica della Lettera ai Romani (a cura di Riccardo Renzi)
L’epistola è attribuita dalla quasi totalità degli studiosi all’apostolo Paolo. Questa contiene molti riferimenti alle Scritture ebraiche, dimostrando la profonda conoscenza che l’autore ha dell’Antico Testamento: tutti elementi che concordano nell’attribuzione a Paolo, fariseo, giudeo naturalizzato, conoscitore della legge, discepolo del maestro Gamaliele, e quindi versato nelle più rigide norme della legge paterna8. C.E.B. Cranfield, assieme al teologo Paley, conferma che “oggi nessuna critica responsabile contesta la sua origine paolina”. L’uso della Lettera da parte dei Padri Apostolici ne è una chiara prova. L’evidenza interna alla stessa Lettera, d’altronde, conferma che Paolo ne fu lo scrittore grazie ad elementi di prova quali lo stile linguistico, letterario, storico e teologico. Gli scrittori cristiani dei primi due secoli non nutrirono alcun dubbio sull’autenticità della lettera; tra questi Clemente Romano, Policarpo di Smirne e Ignazio di Antiochia, che nei loro scritti fecero non pochi riferimenti a questo testo. Inoltre la lettera ai Romani, con altre otto lettere di Paolo, si trova nell’antico papiro Chester Beatty II (Papiro 46) ed a tale proposito il paleografo e accademico britannico Frederic George Kenyon nel suo libro Our Bible and the Ancient Manuscripts scrive: “Abbiamo qui un manoscritto quasi completo delle Epistole Paoline, scritto a quanto pare verso l’inizio del III secolo”. Lo stesso autore scrive anche: “Pertanto uno dei papiri Chester Beatty, della prima metà del terzo secolo, quando era completo conteneva i quattro Vangeli e gli Atti; un altro che è almeno altrettanto antico e può essere della fine del secondo secolo conteneva tutte le epistole di S. Paolo; un altro conteneva il libro di Ezechiele, Daniele ed Ester. La canonicità della Lettera ai Romani è inoltre confermata dal Canone muratoriano, probabilmente la più antica lista dei libri del Nuovo Testamento. L’importante manoscritto dell’VIII secolo, appartenente alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, scoperto da Ludovico Antonio Muratori e pubblicato nel 1740, sulle lettere paoline asserisce: «Ora le epistole di Paolo, quali sono da dove o per quale ragione furono mandate, esse stesse si rendono chiare a chi capirà. Prima di tutto scrisse estesamente ai Corinti per proibire lo scisma dell’eresia, quindi ai Galati [contro] la circoncisione e ai Romani sull’ordine delle Scritture, accennando che Cristo è in esse la materia principale, ciascuna delle quali è necessario che consideriamo, visto che il benedetto apostolo Paolo stesso, seguendo l’esempio del suo predecessore Giovanni scrive a non più di sette chiese per nome nel seguente ordine: ai Corinti (primo), agli Efesini (secondo), ai Filippesi (terzo), ai Colossesi (quarto), ai Galati (quinto), ai Tessalonicesi (sesto), ai Romani (settimo)»9.
Note
- Istruttore direttivo Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.
- Geometra appassionato di storia antica.
- R. Lazcano, Biografía de Martín Lutero (1483-1546), Madrid, Editorial agustiniana, 2009, p. 32, traduzione personale dallo spagnolo all’italiano.
- Paolo, Lettera ai Romani, cap. 1, https://www.giulianacreola.it/images/Didattica/Latino/romanialpha.pdf
- W. Barclay, The Letter to the Romans, Westminster Press, Filadelfia 1975.
- D. E. Aune, The Blackwell Companion to The New Testament, 2010.
- A. Sacchi, Lettera ai Romani, 2000; J. D. G. Dunn, Eerdmans Commentary on the Bible, 2003.
- San Paolo, Lettera ai romani, introduzione e commento di Antonio Pitta, Padova, Edizioni Messaggero, 2020, introduzione.
- The New Schaff-Herzog Encyclopedia of Religious Knowledge, 1956, volume VIII, p. 56.