“Frammenti sparsi”: poesie di Fabrizio Fabi

Nella poetica di Fabi per quanto concernono stilemi e modelli di riferimento non è difficile intravedere in ciò che scrive una diretta influenza dannunziana, specie le liriche imbevute di figure mitiche della tradizione greco-romana, i richiami ai grandi classici del passato non si esauriscono certo qui, forte è anche la presenza pascoliana nell’immortalare sentimenti e situazioni travagliati e misteriosi della vicenda umana. In questi componimenti risuonano anche la poesia della tradizione inglese romantica e decadente, i poeti della beat generation americana, Ferlinghetti su tutti, la poesia francese, gli haiku giapponesi dal gusto estemporaneo, ma soprattutto si avverte il tentativo di misurarsi coi poeti locali della tradizione dialettale monterubbianese e fermana, colta e dialettale, da Luigi Centanni a Ada Nepi, da Acruto Vitali a “Li Matti”, caratterizzati dall’uso del vernacolare.

Le forme si alternano tra la metrica classica, di cui si predilige il sonetto, e il verso sciolto con un ampio corollario di mezzi retorici consolidati nel panorama letterario.

Ancora Amo 

Lascia che le mie parole infuocate 
precipitino come bossoli 
(rotolati) a terra, 
se solo trafissero il bersaglio, 
le tue labbra ora 
saprebbero di zucchero. 

Gherigli di noce cavi 
sospinti dalla marea, 
emergono quali emisferi senza pensieri. 
Immobili grilli riposano 
su steli di avena, 
spettatori indifferenti 
della mia mestizia, 
della tua malizia. 

Minuziosi intagli sulle cortecce 
degli elci, fessure aggraziate da cui 
scendono lacrime di dolore. 
Un desiderio, mordere cristalli 
di resina addensati sul fusto 
di un albicocco. 
Nelle vellutate sue foglie 
diafane scorgo la tua linfa pulsare 
un sottile ricamo di vene esangui. 

Fragile la mia essenza come 
fragili le ali di una farfalla, 
hai rimosso la polvere che mi faceva volare. 
Corde spezzate di uno strumento 
mai suonato, non so cogliere la tua vera armonia, 
non vedi rughe sul mio volto fanciullo, 
io vedo dolore nel mio profondo. 
Come può una bambina serbare 
rancore alla mano paterna, 
forse vedi gli occhi di tuo padre, 
non ho l'età di tuo padre. 

Tra le pietre incastonate ad arte 
nel muro c'eri tu, tassello  
perfetto che sorregge il mio peso, 
cadi tu e crolla tutto.

Alba Andina 

Come esili dita lambite 
dal vento, la corrente andina 
pettina nel folto sopite 
le foglie, l'acacia s'inclina 

sotto il tepido manto di nembi 
arroventati dall'astro, alito 
dorato, la plaga di lembi 
terrosa riarsa nell'arido 

solco si tinge di cremisi. 
La squilla risuona insù le vette 
de La Libertad, paradisi 
ove il condor e il gheppio saette 

fra cuspidi e pinnacoli irti 
volteggiano in danze con gli astri.
E il cielo purpureo tra i mirti 
rosati albeggia su pilastri 

vellutati, pelame biancastro 
di agili vigogne, nera 
Ia terra, sorriso di alabastro 
schiude ridente la sclera 

Ciglio nitido abbraccia lo sguardo 
l'assonnata e obliosa radura 
dabbasso s’ode il gallo tardo 
ridestar col canto la natura. 

Agli Intha dell’Inle 

Crescioni d'acqua galleggiano 
sul terso e florido lago muschiato. 
Paziente l'asta s'immerge, i flutti guizzando 
come roride perle, le alghe 
avvinghiano docile il bambù. 
Cruna flessibile 
d'un insolito ago 
buca l'argento scaglioso 
di un livellato specchio. 
Affonda nel gorgo lo spago 
sottile senza ombra tracciare 
e cuce e imbastisce le pieghe 
d'un panno fluttuante, 
intreccia e divincola 
terra e mare e acqua e zolle 
viscose, flemmate dal lago 
placido, riluce sui pomi 
smeraldo, acerbi succhi 
lambiti e pasciuti 
dal fertile lago. 
Inermi le trote, compagne 
adombrate di atolli erbosi, 
rilucono a sprazzi nelle macchie 
di sole e come astri balenano 
dalle zattere di terra 
galleggiante, il pescatore 
rincorre tra anse e pieghe 
grovigli di uno stesso tessuto. 

Mariposa

vorticosa tra le anse 
verdi di siepi, leggiadra 
in un valzer di voli 
sospinta da sbuffi improvvisi 
con un fremito d'ali 
sali di quota sfidando l'aura, poi ti nascondi, riemergi 
dietro massicci odorosi 
mentre petali di rose vibranti 
acclamano la tua maestria sventolando agili gli steli di seghettate lamine 
E sorvoli polle erbose 
le cui corolle ti sorridono
e schivi chiome austere 
che non approvano, mentre raggiante rincorri le tue compagne 
di giochi innocenti 
come nastri sciolti rapide 
vi dileguate, sottratte agli sguardi 
di curiosi amanti. 
Volteggi e tanto somigli a una foglia 
pendula che ondeggia tra cielo e terra 
quando si parte dal ramo. 
Danzando miro la delicata
tua forma e scorgo la vanità 
bionda di cui ti compiaci. 
Senza posa, irrequieta 
non hai desio di prendere fiato, 
comprendo ora la tua essenza 
mariposa, mai sazia di volute non riposi. 

Solstizio

Lucciole, bagliori fuggevoli 
di tiepidi lumi. 
Velame stellato di fulgide 
ali nella scura notte s'acquieta. 
Frinire sommesso di cicale 
incessante sui muri oscurati. 
Pallore languido dell'astro  
Selene regnante nell'empireo 
dimora, singulto notturno 
di Atene piumata, si specchia 
su gracili riflessi d'elitre 
scolpite nel verde metallo. 
Un oceano di silenzi s'infrange 
su scogli d'ambra. 
Glissato staccato scorre armonioso 
un palpitare sommesso tra fronde 
e rami e fogliame, s'arresta, 
pur breve riprende crescendo. 
Folate improvvise s'alternano a scrosci impetuosi. 
Nell'aere risuona l'adagio 
su carta vergato lieve d'inchiostro 
note perfette di sinfonie celesti, 
mano sapiente d'eterno splendore. 

Voluptas

Ninfa fugace e scevra d’ogni male 

Nutrice licenziosa di peccato 
intrisa m’ammorba il tuo turgore 
le fise labbra iridescenti ammiro 

Pallido afflato simile all’untore 
vitrei imbalsama d’avorio gli occhi 
cosparge il volto d’umido ardore 

Traspare rorido il succo tra i nocchi 
del tuo dorso d’opale e d’argento 
ruvide rupi che le labbra tocchi 

come stoffe nebulose, pulmento 
alla bellezza funebre del viso 
d’amore pallido, bigio ornamento 

Amaro amore

Occhi ciechi scartano involucri  
dal tuo volto, empiono la carne 
misura dell'abbandono 
alla menzogna, diffido 
non m'affido alla tua clemenza 
di pargolo innocuo, 
col rovente sprezzo 
e l'incallita superbia 
che scioglie al sole il tuo incanto 
e svela cruente le rughe, 
concentriche vie di palpitante 
livore, astio bulimico 
del tuo io perverso. 
Florido seme di malvagità 
stillicidio di bruni e appassiti 
frutti, del male compito, 
rese sterile il tuo corpo 
Ora consunta dal pauco candore 
del brulicare nefasto 
di sferzanti parole 
che lenirono mai paga 
la tua sete di odio. 
Parole rivelano lieve 
come niveo osso di seppia 
un amore carnoso, putrido, 
serrato nelle viscere 
incapace di fiorire 
tra le vene plumbee  
che tardi pretesero di sciogliere 
il tuo ghiaccio di cuore 

9 aprile

Tortuosi sentieri s'inerpicano 
lungo le ferree mani gravi 
come arnesi incandescenti plasmano 
arrendevoli legni cavi 
simili con la scorza al tuo legnoso 
viso ruvido, solca lo scalpello 
teneri rivoli di mogano 
levigato da affanni grevi 
dissolvono l'acume dei pensieri 
volute e spire nelle cornici. 
Gli sguardi nostri a volte foschi 
son trucioli spazzati ormai raccolti 
Lacche smalti tempere e cere 
irradiano bagliori luccicanti 
come agli occhi tuoi madreperla 
nelle anse eburnee delle maniglie 
solidi appigli nell'incerta stanga 
consunta scalfita mai marcia 
Resisti agli strali del tempo 
la pittura incrostata le scaglie 
sfavilla come gemme di lacrime 
versate dagli occhi di balsa 
teneri modellati all'amore 
che tu albero maestro mi concessi 

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Fabrizio Fabi si è laureato in Lingue e culture straniere occidentali e orientali presso la facoltà di Lingue dell'Università degli Studi di Macerata e ha conseguito ivi la laurea magistrale in Lingue, culture e traduzione letteraria.

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