“Poesie” di Paul Celan (L’orma editore)

Oggi 9 maggio esce questo corposo e prezioso volume, che raccoglie un’ottima antologia delle poesie di Celan con testo originale a fronte e traduzione di Moshe Kahn, e che comprende anche la biografia del poeta, la cronologia delle opere, una nota editoriale, una nuova introduzione del traduttore e l’intervento “Con Paul Celan nel bagagli” di Helena Janeczek, una delle pochissime scrittrici tedesche ad aver scelto l’italiano come lingua d’espressione letteraria. L’orma editore, che di solito non pubblica poesia, non poteva fare scelta migliore. Ritengo che sia più economico comprare questo libro che comprare tutte le opere di Celan, pubblicate da Einaudi. Celan affronta un trauma storico, che si fa tragedia di un popolo e quindi universale, e al contempo dà una risposta magistrale ad Adorno, che sosteneva che non è più possibile scrivere poesia dopo Auschwitz. Se esistono libri necessari per chi legge e scrive poesia, questo volume fa parte della lista: è imprescindibile. Uno dei motivi per cui credo che la poesia non sia inutile è l’esistenza dei componimenti di Celan. Il poeta con i suoi “paesaggi-memoria”, la sua elaborazione del lutto e della “mancanza”, il suo spessore etico, la sua cifra criptica e nascosta penetra il corpo della parola e la sua parola poetica si fa corpo. Il poeta con la lingua del carnefice canta le vittime, ma riesce nel suo linguaggio a far confluire sia il tedesco che l’ebraico e l’yiddish; rappresenta sia i sommersi che i salvati, per usare due termini di Primo Levi; riesce a evitare lo sproloquio delirante e l’afasia, il grido del folle e il mutismo, raggiungendo un equilibrio poetico magistrale: così facendo, descrive, per quel che umanamente è possibile, l’indescrivibile. L’equilibrio psichico invece il poeta non lo raggiunse mai a causa della morte dei genitori nel lager, del suo internamento in un campo di concentramento, oltre alle accuse totalmente infondate di plagio e alle incomprensioni con il Gruppo 47. Comunque da un lato la parola poetica non basta per raffigurare tutto il dramma collettivo e dall’altro è proprio la parola l’unico modo di cercare di esprimere l’inesprimibile, di dare voce a chi non ne ha mai avuta. In questa poesia si comprende come in nessun’altra lo iato tra potenzialità e limiti intrinseci della parola. Nei versi si percepisce non solo lo stato di “semi-morte allacciata alla vita” del poeta, scampato al lager, ma anche la condizione di ogni uomo “compenetrato dal nulla”, insidiato dalla “nonparola”. A ogni modo nei lager era proibito scrivere. Vietando la scrittura si voleva evitare la memorialistica, tramandare ciò che era stato vissuto, ma allo stesso tempo anche annientare totalmente l’identità, la personalità, la cultura, l’intelligenza dei prigionieri. Celan in tal senso è il più grande poeta del cosiddetto “naufragio”. Come scrive il poeta: “Una parola – lo sai:/ un cadavere”. Il poeta ce lo fa capire: è necessario che tutto questo si sappia. Dopo aver scritto un romanzo un autore dovrebbe rileggersi “Se questo è un uomo” e “Una giornata di Ivan Denisovič“. Dopo aver scritto una raccolta un poeta dovrebbe rileggersi Celan e chiedersi se l’espressione delle sue paturnie abbia ancora un senso.“Chi dice la verità dice ombra”: la verità è anche nell’ombra. L’ombra si fa anche verità, la verità si fa anche ombra. Nel caso di Celan la verità non è solo rischiaramento, fare luce, ma attraversamento del buio a carponi, a tentoni. La sola radura lasciatela pure a Heidegger, così come il pensiero poetante: irraggiamento lirico e ottenebramento costituiscono in questi versi il chiaroscuro dell’animo umano, dell’umanità intera. Per chi non lo avesse capito Celan è uno dei più grandi poeti del Novecento, come minimo. Eliot scriveva che il genere umano non può sopportare troppa realtà. Celan ci dimostra in ogni suo verso esemplare che il genere umano non può sopportare troppo dolore e troppo orrore. Chi è stato troppo a lungo nell’oscurità rimane non abbacinato ma accecato dal sole. Tutta la poesia di Celan si fonda sul mito della caverna platonico: per capire chi è veramente l’uomo bisogna stare nelle tenebre, abitare la caverna, adattarsi all’ombra, vivere il buio, scrivere del nero del latte. E Celan scrive versi bellissimi e oscuri per restituire l’oscurità semantica all’oscuro del reale. L’orrore però non può essere detto e affrontato nella sua totalità. L’abgrund non può essere sopportato da nessuna psiche. È questa la ragione del suicidio del poeta. In poesia scriveva Zanzotto vige l’eterogenesi dei fini. Per eterogenesi dei fini spesso quando si cerca l’io si trova gli altri e viceversa. In fondo quanto c’è veramente di noi in noi? E quanto c’è veramente degli altri nella nostra percezione degli altri? Identificazioni, interiorizzazioni, proiezioni, spostamenti sono delle costanti nella vita psichica di ognuno. Nessuno ne è immune. In questo caso Celan interiorizza le vittime dell’Olocausto, si identifica in esse. Celan parla al plurale e ricorda quei giorni terribili. Ma ha anche la forza di rivolgersi ad altri ancora viventi. Celan trova la forza di scrivere “tu”, di tentare un dialogo, un possibile incontro, un’apertura. Il poeta strappa le parole al silenzio per cercare “una parola che testimoni per noi due”. In questa poesia non c’è alcuna rimozione, né menzogna. Piuttosto avviene la simbolizzazione, la trasfigurazione dell’Olocausto. Per Freud era la sublimazione degli impulsi sessuali il meccanismo di difesa dell’io che creava cultura. Nella poesia di Celan c’è la sublimazione del dolore, quindi questi versi sono cultura all’ennesima potenza, perché trattano di uno sterminio, della nientificazione dell’io e del noi. L’Olocausto raggiunge le vette ineguagliabili dell’indicibilità. Ci sono poeti che giungono alla soglia del dicibile cognitivo e gnoseologico (certe tinte di colori sono innominabili, l’animo umano è insondabile, etc etc). Celan è sulla soglia dell’abisso. Oltre le sue parole c’è il nulla, il deserto. L’indicibile in Celan è anche storico, culturale, psichico, antropologico, sociale, umano. Scrivere l’Olocausto in tedesco è una sfida ulteriore; significa scriverlo con la stessa lingua degli assassini, parlare agli assassini e agli eredi degli assassini. Nessuno può capire se non ha visto, né vissuto. Quando qualcuno testimonia e descrive ha sempre paura di non essere creduto, compreso o ascoltato. Come scrive nei suoi versi Celan: “Nessuno testimonia per il testimone”. L’uomo è colpevole in primis per questo orrore, ma anche Dio che lo ha lasciato libero di fare. La maggioranza dell’umanità è colpevole dell’abominio. Sono pochi i giusti che si salvano. E coloro che si sono salvati dell’Olocausto hanno mantenuto dentro di loro un fortissimo senso di colpa per essere rimasti vivi, per non aver potuto aiutare gli altri, perché forse chi è morto era migliore. In ogni caso nessuno ne esce innocente da tale orrore. Che cosa resta allora? La memoria di ciò che è stato in questi versi. Ma noi chiusi nelle nostre bolle e rassicurati nelle nostre comfort zone possiamo veramente capire? Leggere questo libro significa chiedersi se la poesia possa essere incisiva nella realtà e quali legami esistano tra quest’ultima e la praxis. Viene da chiedersi se la poesia possa ricordare la storia e se possa cambiarla. Leggere questi versi significa anche farsi un esame di coscienza e affrontare il proprio cervello rettile, la propria violenza. Dario Bellezza scriveva: “So solo la bestia che è in me e latra”. Bisogna riconoscersi e rispecchiarsi empaticamente nelle parole di Celan, ma anche chiederci se saremmo in grado di contribuire anche noi a un orrore simile: fascisti e nazisti si ricordino dell’Olocausto e i comunisti dei gulag (per quanto i comunisti italiani non abbiano alcuna responsabilità dello stalinismo, di Pol Pot, etc etc). Ognuno, invece di fare la conta dei morti ammazzati dalla parte avversa e di fare strumentalizzazioni politiche di bassa lega, dovrebbe chiedersi nel suo intimo: siamo davvero migliori di coloro che hanno generato tali orrori o nel nostro profondo siamo sempre gli stessi e ciò che in parte ci salva sono una mutata situazione storica e politica? Siamo davvero migliori dei carnefici? Come ci saremmo comportati in simili circostanze? Siamo davvero certi che non avremmo commesso peccati di omissione, nel migliore dei casi? Leggendo Celan chiunque, se ha un minimo di sale in zucca, si pone questi interrogativi.

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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