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La storia di Ugo Precis e di tanti lavoratori della ristorazione
C’era una volta un giovane studente universitario di 23 anni. Si chiama Ugo Precis e la sera, per non gravare troppo sulla sua famiglia, lavora come cameriere presso un bar del centro storico. La mattina nelle aule delle Università ad ascoltare le lezioni ed il pomeriggio ci si prepara per il lavoro. Fino oltre la mezzanotte ai tavoli, a servire, sparecchiare e pulire i tavoli.
Succede che arriva una pandemia ed i luoghi della socialità vengono chiusi. Succede che Ugo Precis ha un contratto trimestrale che viene rinnovato ogni volta per tre mesi. Un contratto di quattro ore giornaliere per sei giorni alla settimana. Un contrattino part-time, senza pretese, per un giovane che non aspira a fare quel lavoro per tutta la vita. Il contratto scade poco dopo, Ugo resta a casa senza cassa integrazione. Per fortuna è ancora e solo uno studente che può contare sulla sua famiglia.
Succede che nei ristoranti, nei pub, nei bar e nelle strutture alberghiere lavorino anche molti padri e molte madri che hanno avuto più sfortuna. Non solo giovani studenti ma anche genitori che hanno perso un lavoro e che per far fronte alle spese si accontentano di un lavoro più precario e non pagato molto bene. Per andare avanti, per non stare fermi senza entrate. Anche loro non hanno diritto a cassaintegrazione a scadenza del contrattino. Hanno diritto, però, a differenza di Ugo che vive in un nucleo familiare con uno o più stipendi, al Reddito di Cittadinanza.
Mettersi in gioco, ce lo chiede Renzi
Ugo Precis non esiste nella realtà. Nella realtà ci sono tanti Ugo Precis. Così come ci sono anche tanti adulti che di fronte a difficoltà lavorative, alla chiusura di un’azienda o ad un licenziamento, fanno quello che ci chiedono alcuni politici che non conoscono molto bene il mondo del lavoro: mettersi in gioco. Ma che significa poi mettersi in gioco se non hai la possibilità di migliorare la tua condizione lavorativa, di approdare verso un’assunzione regolare, una promozione, una crescita professionale?!
Sulle planimetrie di bar e ristoranti e sui contributi non versati
In questo mondo lavorativo non esistono solo i ragazzi come Ugo e i genitori che hanno perso un lavoro. Ci sono anche i vari Mohammed e Abdullah che lavorano come lavapiatti senza contratto, a nero. La postazione del lavello, non a caso, è sempre molto vicina alla porta sul retro. L’uscita di emergenza. Una postazione strategica che guai a non prevederla nel progetto. Come la mensoletta nei bagni degli american bar più di tendenza.
I vari Mohammed e Abdullah per rinnovare il permesso di soggiorno, per esempio, devono cercarsi qualcuno che li assuma come badanti e devono pagargli i contributi da versare più un regalino per il favore. Quei contributi che non gli versa il datore di lavoro.
Occorre una grande operazione educativa e culturale, non il referendum sul reddito di cittadinanza
Abbiamo bisogno di una grande operazione educativa e culturale. Ma non abbiamo bisogno di un referendum sul reddito di cittadinanza. Né, tantomeno, che venga a proporcelo un politico come Renzi che su un referendum aveva scommesso la sua carriera politica e che non ha mantenuto la promessa. Quella di abbandonare la politica, s’intende.
Abbiamo bisogno di un’operazione educativa e culturale che metta al centro il lavoro e i lavoratori. Un’operazione che restituisca al lavoratore la consapevolezza di aver bisogno di maggiori tutele. Non, piuttosto, di flessibilità lavorativa. La flessibilità lavorativa non rende diritti, sicurezza economica, una buona paga. Non porta al lavoratore la possibilità di progettare la propria vita con sicurezza. La flessibilità è un concetto del capitalismo liberista. E di quei politici che vanno a braccetto con gli industriali.
Recovery Plan o Reddito di Cittadinanza?
Mentre ci si prepara alla più grande pioggia di soldi per gli imprenditori italiani, alcuni politici liberisti si oppongono al Reddito di Cittadinanza. Una misura che offre ai più sfortunati la possibilità di affrontare quantomeno una parte delle spese di una famiglia. Soldi per gli imprenditori sì, a palate, che possono assumere lavoratori precari e licenziarli illegittimamente (con la riforma del jobs act). Per le famiglie no.
Sono gli stessi che si sono opposti alla tassa sulla plastica, che hanno la trivella facile, che vogliono risolvere il problema dei rifiuti bruciandoli. Sono gli stessi che ogni sette anni ripropongono il ponte sullo stretto di Messina, come se non fosse bastato il Tav. Le famose grandi opere, mangiatoie di appalti.
Quale operazione culturale?
L’operazione culturale che dobbiamo fare è quella di capire da che parte stare. Se con le famiglie e i lavoratori o se con i rappresentanti di un capitalismo vorace, aggressivo, senza scrupoli. Se stare dalla parte di una società ecologica o dalla parte di chi distrugge, inquina, compie speculazioni edilizie. Se stare dalla parte di un equilibrio sociale, di un maggiore benessere per tutti o dalla parte di chi vuole arricchirsi grazie al lavoro malpagato degli altri.
L’operazione culturale che dobbiamo fare è quella di capire, ma di comprenderlo seriamente, perché l’impresa deve essere finanziata con soldi pubblici, con i soldi di tutti. I miei e i tuoi. Deve fare profitto solo per pochi quando l’economia e la pandemia lo permettono. E poi nei periodi di crisi deve ricevere ulteriori incentivi e sostegni. Perché con i nostri soldi?
Perché non si può chiedere all’azienda in difficoltà che chiede contributi pubblici di redistribuire una parte dei profitti tra i lavoratori? Perché un’azienda che va recuperata, salvata, aiutata a rimanere sul suolo nazionale, piuttosto che trasferirsi all’estero, non può trasformarsi in cooperativa di lavoratori?