Uno dei motivi per cui la poesia contemporanea non è letta è perché ritenuta troppo difficile. Non è il motivo principale, ma è una delle ragioni. Inutile mentire o arrampicarsi sugli specchi. Inutile negare la realtà, l’evidenza dei fatti. Pasolini però parlava di “codice classistico della selezione linguistica” in una sua intervista e del fatto che lui ad esempio nella prima poesia scritta da bambino avesse usato le parole usignolo e verzura, senza sapere cosa significassero. Maria Luisa Spaziani ha confessato che in alcuni casi Montale non sapeva riconoscere certe piante, che però nominava nelle sue poesie. Zanzotto sosteneva che in poesia vige “l’eterogenesi dei fini”: si cerca di esprimere una cosa e se ne esprime un’altra; il risultato definitivo non è mai l’obiettivo prefissato. Intendiamoci: in poesia parla anche l’inconscio, l’Es. Ma i poeti scrivono stelo e non gambo, perché devono scrivere in un linguaggio aulico, per rispettare la tradizione, per il ritmo, per la musicalità. Non è che così facendo allontanano le persone dalla poesia?
Io mi chiedo: a chi rivolgersi? Rivolgersi all’uomo che lavora, che non ha studiato e che non legge poesia? Oppure rivolgersi solo ai pochi appassionati, ai pochi cultori della materia, ai critici e agli italianisti? Per molti poeti è una partita persa in partenza rivolgersi al cosiddetto uomo della strada. Alcuni poeti rinunciano al grande pubblico, chiusi nel loro snobismo, nel loro elitarismo. Succede così che le persone considerano poeti i cantanti. Non è che forse questo è il tempo non solo della post-verità ma anche della post-poesia?
Sappiamo come vanno le cose: tanto più un poeta scrive in modo difficile e più sembra profondo, intelligente, intellettuale. Più uno è incomprensibile e più è bravo! Ma è davvero così? Un mio amico, quando avevo vent’anni, mi diceva che voleva scrivere in un modo così criptico e incomprensibile che, se fosse diventato un poeta riconosciuto, i critici letterari sarebbero stati messi a dura prova a interpretare, a valutare. Era solo l’albagia di un ragazzo, ma ho la vaga impressione che alcuni poeti più maturi condividano questo sogno! Intendiamoci: ci sono ottimi poeti che puntano molto sull’indeterminatezza, sull’ambiguitá semantica, sulla polisemia e questo è più che legittimo. Però c’è più sforzo e più arte nell’esprimere la complessità del mondo o nel semplificare? Insomma battere o levare? In un modo si rischia l’eccessiva verbosità e nell’altro l’afasia. Ci sono poeti come Pavese che, pur essendo comprensibili, rivelano una precisione chirurgica linguistica. Pavese è chiaro ed esatto allo stesso tempo, come narratore e come poeta. Ma ci sono anche dei minori che sono troppo arzigogolati e inesatti. La poesia dovrebbe essere prima di tutto nominazione. Il poeta dovrebbe però cercare anche di raggiungere la soglia del dicibile. Per il grande critico Andrea Cortellessa la chiarezza e l’oscurità sono una questione troppo dibattuta, che genera polemiche sterili, anche se lui disdegna un certo esoterismo letterario. Un simbolo, una metafora, un’allegoria a ogni modo devono comunque essere comprensibili per diventare degli universali. Per il grande critico Alfonso Berardinelli la chiarezza e oscurità sono relative ai lettori, alla comunità, all’epoca. Bisogna per forza farsi capire a tutti? Bisogna sforzarsi di farsi capire a tutti oppure non si deve rinunciare in alcun modo alla letterarietà, anche se capiranno in pochi? E si può farsi capire a tutti ed essere letterari? La priorità è quella di farsi capire o di essere a tutti i costi letterari? L’espressività artistica deve essere tale a discapito della comunicatività, pur sapendo che quest’ultima da sola non basta? Esistono vari rischi quando si scrive poesie: 1) Il rischio dell’idioletto, cioè di scrivere in un linguaggio privato, incomprensibile o difficilmente decifrabile 2) il rischio della banalizzazione. 3) il rischio di scrivere in una lingua Standa, derivata dai mass media, dal consumismo 4) il rischio di diventare troppo commerciali e di non essere più poeti.
Per Sanguineti l’ideologia è linguaggio, il linguaggio è ideologia. Oggi però non è rimasta più nemmeno alcuna ideologia.
Il peccato maggiore dei poeti forse è quello di essersi rassegnati ormai che la realtà incida più sul linguaggio di quanto quest’ultimo incida sulla realtà. Un altro difetto è quello di accettare la marginalità della poesia, anzi la volontà di voler essere a tutti i costi di nicchia. Oggi non si può scrivere come Pascoli e nemmeno come Montale. Ci vuole non dico innovazione linguistica ma un linguaggio appropriato alla propria epoca, in un certo qual modo attuale, senza farsi dominare dalla cronaca, dalle mode, dai neologismi, dai gerghi. Alcuni però sono rimasti troppo indietro: imitano ancora oggi troppo i grandi poeti del passato, basandosi sulle loro reminiscenze scolastiche.
Certi poeti dovrebbero a mio avviso venire un poco incontro al lettore. Se ci sono troppe citazioni colte in una raccolta poetica, allora si dovrebbe mettere delle note. Insomma chi deve fare il maggior sforzo, il lavoro più faticoso? Il lettore a capire o il poeta a farsi capire? In poesia alcuni complicano ancora di più le cose. Un conto è restituire la complessità del mondo e un altro è essere troppo complicati, impreziosire troppo il linguaggio, essere troppo ricercati, troppo affettati. Ma semplificando troppo si perdono per strada pezzi di realtà, a forza di essere troppo sintetici si perde di vista la sostanza ultima e il senso delle cose sfugge via irreprensibile. Ci vorrebbe una giusta misura. Ma la giusta misura è opinabile.
Ci sono dei termini non comuni che servono per descrivere la realtà e vanno usati, a meno di non essere imprecisi, sciatti, approssimativi.
Ma Matteo Pelliti su “La poesia e lo spirito” ci ricorda che per Giovanni Giudici i poeti scrivono per essere apprezzati e trovare consenso nella comunità letteraria, nel “novero” dei poeti. Non si può a ogni modo piacere a tutti, perché si finisce per non piacere a nessuno. Inoltre semplificando troppo si rischia di non dire niente. Forse alcuni cercano troppo parole difficili, paroloni, un lessico troppo forbito. Sono i poeti che devono abbassarsi al livello dei lettori o sono i lettori che devono elevarsi culturalmente al livello dei poeti? E nel secondo caso a chi spetta questa elevazione? Alla singola persona o alla scuola e alle istituzioni? A mio avviso un modo per risolvere il problema è quello di trovare la ricerca della medietà linguistica, che sia però pregevole e non mediocre. Ma anche ciò ancora una volta è opinabile.
Per Einstein bisogna semplificare senza essere semplicisti. Vale anche per la poesia? Ungaretti era semplice, anche se non facile, ma è passato alla storia soprattutto per l’innovazione, l’originalità e non per la semplicità. Carlo Bo parla di “semplicità calcolata” per la poesia di Garcia Lorca. Prevert lo capiscono tutti ad esempio. Corazzini lo capiscono anche i bambini. Calvino è double face: ha più chiavi di lettura, ma alcuni suoi libri possono capirli anche i bambini, guidati dagli insegnanti, tant’è che viene letto già alle elementari e nelle scuole medie inferiori. La virtù di molti grandi è quella di farsi capire a tante persone, ma non è una regola universale che vale per tutti i poeti: rimanendo in Italia Zanzotto, Sanguineti, Amelia Rosselli, Mario Luzi sono impegnativi da leggere e capire. Ma esiste una poesia facile e una poesia impegnativa? Esiste una poesia colta e una popolare? Bisognerebbe mettersi tutti d’accordo, ma è impossibile: qual è il fine ultimo della poesia? Descrivere il reale, simboleggiarlo, trasfigurarlo o dire come siamo fatti e di cosa siamo fatti noi esseri umani? Ancora una vota tutto questo è opinabile.