La poesia di Stefanoni è frutto di meditazione, ricerca interiore, pensiero, spiritualità. Come sanno i tibetani, che sono maestri di meditazione, si può meditare in ogni luogo e in ogni modo: non c’è bisogno esclusivamente della posizione del loto. Si può anche meditare in un attimo di pausa dal lavoro davanti a un distributore automatico o alla fine di una salita durante una camminata. Innanzitutto il materialismo onnipervasivo di cui siamo vittime noi occidentali qui viene superato, trasceso. Basta soltanto questo per considerare positivamente questa poesia, in una società dove l’apparire e l’io corporeo fanno da padroni. Invece qui abbiamo un percorso di individuazione junghiano, ovvero la ricerca del vero Sé. Se intendiamo sbrigativamente per politica l’appartenenza partitica, questa raccolta non è politica; se invece intendiamo in senso lato la politica come ribellione, contestazione al pensiero dominante, allo status quo, al conformismo, al mainstream, ebbene questi versi sono intrinsecamente e interiormente rivoluzionari: potrebbero rappresentare la premessa per un cambiamento di atteggiamento nei confronti del mondo di un giovane lettore oppure una presa di coscienza di un lettore più adulto; già questo risultato sarebbe politica, per quanto le poesie non cambiano il mondo, come scriveva Patrizia Cavalli. Insomma la politica, per usare un’espressione dell’autore, è quella del gesto, appunto poetico. È chiaro che per scrivere questi bei versi l’autore ha dovuto analizzare filosofia, psicologia del profondo, letteratura e naturalmente cercare molte risposte dentro sé e appunto nel cielo. Lo scavo interiore è dato dal raccoglimento, che non è solo ripiegamento, ma apertura al mondo, agli altri, all’Altro. In “Salite” abbiamo un’immagine emblematica: un profumo che apre all’azzurro, ovvero una personificazione. Ma la poesia prosegue così: “questo profumo al termine della salita che apre all’azzurro nell’immagine scoperta dell’uomo”. Potremmo intendere quell’immagine scoperta dell’uomo come la natura umana, di cui sappiamo leggi, dinamiche, pulsioni, forze e debolezze, costanti antropologiche, etc etc. Ma potremmo ancora riflettere diversamente che quell’immagine scoperta dell’uomo è l’autore stesso, che si è autosservato, per dirla alla Gurdjieff, e si è messo a nudo. Discorso a parte merita il gioco sapiente e riuscito della polisemia, da alcuni poeti cercata invano. Qui l’ambiguità semantica non crea un’indeterminatezza caotica e informe ma un efficace gioco di rimandi e di specchi. Il poeta sa bene quel che fa e quel che scrive: la proprietà di linguaggio e il self control hanno la meglio sui meandri psichici, sul materiale spurio dell’Es. Credo di poter affermare che la poesia di Stefanoni non cerca di raggiungere la soglia del dicibile, non cerca di avvicinare il suo significante al significato, ma cerca di raggiungere la soglia dell’essere o almeno di sfiorarlo asintoticamente. È una poesia rivolta all’essenza. Le essenze sono cercate nelle cose, nel mondo, nel cielo. Di conseguenza è una poesia fondata heideggerianamente sulla differenza ontologica tra essere ed ente, senza cadere in troppi ontologismi (astrazioni, categorizzazioni, etichette filosofiche dell’essere). L’autore sa bene che l’essere si dice in molti modi, come sosteneva Aristotele, ma declina le varie forme dell’essere in una poesia metafisica ma non filosofica, esistenziale ma non esistenzialista. Il poeta mette tra parentesi la datità, lo spazio, il tempo per giungere a degli insight, a delle folgorazioni mentali, che affiorano dall’inconscio, che non prende mai il sopravvento, ma il cui lavorio e la cui rielaborazione costante permette la creazione di espressioni verbali originali. Da un punto di vista letterario il poeta coniuga l’espressionismo con delle venature ermetiche. Sapientemente rifugge dalle pennellate impressionistiche, che sarebbero desuete. Potrei affermare che Stefanoni è tutto teso all’essenziale, levando e togliendo senza mai spolpare e scarnificare, anzi è tutto teso all’essere. Nella sua poesia viene rappresentata tutta la solitudine del poeta contemporaneo, la cui parola viene nullificata e fagocitata da un bailamme di immagini e messaggi massmediatici, e la solitudine dell’uomo contemporaneo che è alienato, mercificato, reificato. Ci sono allo stesso tempo in questa poesia la condizione di isolamento del poeta contemporaneo e l’alienazione marxiana, la deiezione di cui parla Heidegger, l’essere gettati nel mondo. Tutto questo viene svolto con un’indagine paziente e certosina sia di ascolto interiore che del mondo. La poesia di Stefanoni racconta attimi, istanti di sospensione. Ma per raccontare attimi non c’è bisogno di narratività, della solita descrizione bozzettistica ma di un’icasticità, di una figuratività, che lui trova sapientemente. Per fare ciò naturalmente il poeta si astrae dalla corporeità e dall’hic et nunc per trovare la condizione esistenziale umana, astorica, universale. In questo senso l’autore ha delle clausole finali intrise di un lirismo molto efficace e un’impersonalità felice, che non diventa mai autonomia del significante e non pretende mai di divenire oggettività, che lascia alle scienze. Abbiamo in questa raccolta un io che diventa l’io di tutti, un io non egoriferito né troppo residuale. Anzi direi che l’io è un solido fondamento però rimane sottotraccia, mai esplicitato, ma oggettivato. Il poeta raggiunge un equilibrio mai precario tra io e mondo e la sua poesia non è altro che la risultante di queste due forze mai contrapposte, perché il poeta è consapevole che talvolta è difficile trovare il confine tra interno ed esterno, tra introiezioni e rispecchiamenti. È una poesia caratterizzata dall’assertività, ma non intesa come predominanza di sé, come affermazione di sé ipertrofica, ma come stile relazionale maturo e consapevole (come si intende in psicologia). Il poeta cerca silenzi e fughe per ritrovarsi, per ritagliarsi uno spazio mentale dove cogliere epifanie e scandire gli istanti. “Sul ramo la costanza del cielo che non cede”, ovvero il cielo non è mai vuoto, è sempre ricco di corrispondenze. Può far scaturire immagini, pensieri, emozioni, sensazioni. Senza il cielo sopra di noi non ci sarebbe la legge morale dentro di noi. Il cielo è l’altrove, è Dio. Il cielo va contemplato, interrogato. Nel cielo possiamo proiettare noi stessi. Noi stessi dobbiamo introiettare il cielo. Il cielo ci ricorda sempre la miseria ontologica di cui scriveva Pascal, e i nostri limiti cognitivi ed empirici, che dalla siepe leopardiana sappiamo bene che ci permettono di cogliere l’indefinito ma non l’infinito, per quanto noi aspirano a esso e forse ne facciamo parte. La linea dell’orizzonte in questo senso va considerata come il nostro limite conoscitivo, come il discrimine tra realtà fenomenica e sostrato noumenico: il cielo quindi è simbolo dell’ignoto. Dobbiamo trascendere l’eterno presente, di cui scriveva Debord, perché forse siamo frammenti di eterno e di infinito. È questo che ci insegna molto saggiamente e poeticamente Stefanoni.
SALITE
Perché per partecipata terra
quest’alito breve, questo profumo
al termine della salita che apre all’azzurro
nell’immagine scoperta dell’uomo.
Perché ancora chiede e dà vita
nell’idea dell’acqua la viola del giorno,
nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto
che chiama ogni ora nel volto
alla ragione dell’altro.
Perché dalla screpolatura del labbro
e del corpo, nell’umido amore,
nella parola che manca il bastevole scambio.
*
CHIAMATE
Nel pomeriggio lasciò che si alzasse
il cielo e scendesse il colore
sopra il quadro e il letto ramificato,
sopra la chiave portata al collo
nell’inesauribile dell’umile sostanza,
nella parte lunga del giorno.
L’enigma – questo diceva – non è la morte
ma l’ordinarietà del male nella pena,
la tentazione del nulla, la cancellazione del nome.
*
LA COSTANZA DEL CIELO
Sa da dove il frutto
è fatto opera, di quale annuncio,
di quale scaglie l’ombra ora riluce
nello strappo di vita delle forme.
Sa per femminile trasparenza
la visione dell’ultimo nato,
sul ramo la costanza del cielo che non cede.
*
LA PORTA STRETTA
Una carezza l’occhio – per intervallo –
nella regolarità delle solitudini.
Perché dove manca, il posto
nel peso accovacciato allo spurgo –
la porta stretta, il nome dell’altro
nel principio del passo.
Ripete la sua meraviglia nella donna che ha accolto.
Converge all’umano, attaccata a se stessa
la terra, preparata alla morte.
*
LA POLITICA DEL GESTO
È la politica del gesto
che fa il frammento, il mondo
che si percepisce al suo passo,
l’ordine della poesia nella preghiera.
Ambisce alle mani, non bada ai volti
l’entrata in casa della terra,
la memoria del versetto nell’unione delle dita.