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Sulla natura dei problemi e sul problem solving
Succede che ci imbattiamo in un problema. Succede che non possiamo fare a meno di affrontarlo. Non possiamo tirarci indietro. Spesso non ne capiamo il motivo né l’origine. Ciò che è reale difficilmente è razionale all’inizio, con buona pace di Hegel e di tutti gli idealisti. Affrontare un problema significa comprenderlo. Per comprenderlo bisogna entrarci dentro, approcciarlo, apprenderlo, farlo proprio, interiorizzarlo. Bisogna afferrarlo. Ma solo quando è risolto è compreso pienamente. Fare solo dei teoremi su di esso serve, bisogna formulare delle ipotesi, ma è solo una fase intermedia, non è ancora la soluzione. Bisogna interagire con il problema. Dobbiamo parlarne con altri del problema. Bisogna vedere se è un nostro problema specifico o se ce l’hanno altri. Bisogna chiedere aiuto agli altri. Ci sono problemi insolubili allo stato attuale delle conoscenze che non sapremo mai se saranno risolti dai nostri posteri. Comunque la logica altrui e punti di vista diversi possono aiutarci in una comprensione ulteriore. Prospettive diverse possono portare a strategie diverse di risolvere il problema. Noi stessi possiamo essere un problema. Gli altri possono essere a volte un problema come una soluzione. Stare al mondo comporta vivere problemi, confrontarsi quotidianamente con essi. Rimandare non serve a niente se non a ragionare. Prendere tempo va bene solo per raccogliere momentaneamente le forze, ritemprarsi, dormirci e ragionarci sopra. Per risolvere un problema ci vogliono analisi e sintesi. Ci sono persone più portate nel problem solving e altre meno. Ma non si può essere categorici. Esiste l’interdipendenza in questo mondo. Chi sa risolvere un problema di un certo tipo non ne sa risolvere un altro di un altro tipo: non esistono i geni assoluti, non esistono le menti universali. Pochissimi sono in questo mondo come Pascal, ovvero dei grandi matematici e dei grandi filosofi. Secondo la psicologia cognitiva i problemi vanno individuati, definiti e quindi risolti. Ma non vorrei dilungarmi perché vecchi e nuovi guru vogliono insegnare sempre nuove tecniche, nuovi metodi, giusti approcci per risolvere i problemi. Certi consulenti parlano del problem solving come di una competenza da acquisire, altri come di una capacità da sviluppare. C’è chi insegna come fare delle mappe mentali, chi inventa nuovi diagrammi. Certe filosofie aziendali esaltano le differenze individuali nella risoluzione dei problemi. Lavorativamente parlando valutano un lavoratore sulla base dei problemi che sa risolvere. Un problema però si può anche risolvere in gruppo con il brainstorming. L’approccio più umano e ragionevole sarebbe dire: “dove non arrivo io puoi arrivare tu, dove non arrivi tu posso arrivare io, dove non arriviamo entrambi discutendone possiamo risolvere assieme”. Di certo è utile, spesso necessario individuare le cause del problema e analizzare il problema in sottoproblemi, ricordandosi però di non moltiplicare gli enti, ricordandosi quindi del rasoio di Occam. Il tempo spesso non risolve i problemi, ma per risolvere i problemi ci vogliono tempo e riflessione:
“Tra le molte virtù di Chang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni”, disse Chang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.”
(Da “Lezioni americane” di Italo Calvino)
I problemi esistenziali, Einstein e Isaia
Ma un conto sono i problemi intellettuali e un conto quelli esistenziali. Questi ultimi spesso non si risolvono con la sola ragione. Ci vuole una concomitanza di fattori per la soluzione, non ultime la buona volontà e anche un poco di fortuna, senza affidarsi totalmente alle coincidenze. Succede che in certi problemi della vita talvolta ne siamo troppo coinvolti emotivamente e abbiamo bisogno degli altri per vederci chiaro: è una questione psicologica, non di pura intelligenza. In Occidente si parla di epifania, di illuminazione interiore. In Oriente parlano di Satori. È chiaro che in Occidente soggetto e oggetto sono distinti, nel buddismo Zen con il Satori soggetto e oggetto sono un tutt’uno. Herrigel in “Lo Zen e il tiro con l’arco” scrive: “…il ragno danza la sua rete senza sapere che ci siano mosche che vi si impiglieranno. La mosca, danzando spensierata in un raggio di sole, si impiglia nella rete senza sapere che cosa l’attenderà. Ma attraverso l’uno e l’altra “Si” danza, e in quella danza interno ed esterno sono una cosa sola. Così l’arciere colpisce il bersaglio senza aver mirato esternamente…”.
È comunque sempre un istante di chiarificazione esistenziale. Spesso si spera che col tempo si possa raggiungere la visione esatta delle cose; molti si affidano a un maestro o un mentore che li aiuti a vederci più chiaro. Se ogni pedagogia cerca di tradurre i contenuti in problemi per gli allievi e i problemi poi in ricerca, invece nella vita dovrebbe valere il processo inverso: la ricerca dovrebbe individuare i problemi, che dovrebbero essere tradotti in contenuti.
Einstein sosteneva: “Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi, ma mai nessuna di esse potrà porne uno”. La vera intelligenza umana consiste nel farsi delle domande. Non bisogna mai smettere di chiedere, di interrogare e di interrogarsi:
“Mi gridano da Seir: Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, e poi anche la notte; se volete domandate, chiedete ancora…”
(Isaia 21,11)
C’è davvero una via d’uscita?
Nessuno sa se c’è una via di uscita. È fuori luogo dire che uno si comporta come se non ci fosse una via d’uscita. Non lo sa nessuno. Qualcuno ha forse la prova oggettiva? Qualcuno può dimostrare l’esistenza di Dio? Qualcuno ha la certezza assoluta? Assolutamente no. Al massimo si può essere panteisti, rifugiarsi nel deus sive natura. Oppure si può credere perché tutto è assurdo. Si può affidarsi alla scommessa di Pascal. Ma bisogna coltivare il dubbio. Nessuna fede poi è incrollabile. La vita ci mette alla prova. Spesso vacillano atei e fedeli perché il cammino si fa incerto. Comunque l’uscita sembra un miraggio, una splendida e faticosa utopia. Spesso bisogna saper guardare oltre il presente. Bisogna trascendere il proprio tempo. Per fare ciò si deve coltivare la speranza che le cose possano essere cambiate e che tutto domani andrà meglio. Bisogna affidarsi spesso alla percezione soggettiva nostra e dei nostri interlocutori: ci sono persone che vedono una via d’uscita e altre che non la vedono. Ma oggettivamente esiste una via d’uscita? Come fare in modo di vedere una via d’uscita? Spesso alcuni la vedono perché hanno più logica, ma spesso la vedono solo perché hanno più speranza e sono più ottimisti. Però io non faccio l’equazione “vedere via d’uscita” = “risolvere il problema definitivamente”. Ci sono problematiche insormontabili che sconfiggono ogni ragione. Spesso i problemi si avvicendano e si susseguono. Anzi nella vita e nel mondo i problemi non vengono mai risolti definitivamente. Spesso si presentano problemi inediti, nuovi. Come raggiungere la via d’uscita? Ci possono essere vie d’uscita parziali e momentanee in questo mondo. Ma siamo sicuri che la morte sia una via di uscita? Oppure è la negazione assoluta di ogni via di uscita? Noi abbiamo bisogno di credere in una via d’uscita. A cosa servono le vie di uscita terrene però se non ce n’è una ultraterrena? Spesso cerchiamo una via d’uscita quando non c’è nel nostro labirinto oppure a volte neanche siamo entrati nel labirinto. A volte non troviamo l’uscita perché usiamo lo stesso metodo con cui abbiamo risolto altri problemi precedentemente. Spesso nella vita non vale la ricorsività. Spesso non si possono utilizzare algoritmi. Alcuni pensano che l’intelligenza consista nell’efficacia con cui si imparano cose nuove. Piaget e altri psicologi ritenevano che l’intelligenza consistesse nel modo in cui si risolvono problemi nuovi.
Bergman e la partita a scacchi con la morte
Bisognerebbe ricordare che dovremmo cercare di far stare tutti nel modo migliore a questo mondo: per questo servirebbero le vie d’uscita momentanee, provvisorie. Spesso è difficile raggiungere l’uscita. Siamo come in un incendio. Stiamo soffocando, la vista è offuscata, le fiamme si frappongono tra noi e l’uscita. Ci sono spesso difficoltà, le difficoltà del vivere quotidiano. Bergman ne “Il settimo sigillo” dice tutto a riguardo: l’uomo gioca sempre una partita a scacchi con la morte, ma quando si è giovani si è alle prime mosse, non si pensa alla fine, non si ha ancora la sensazione di scacco matto subito. Gesualdo Bufalino in un suo aforisma scriveva che i suicidi sono solo degli impazienti. La maggioranza di noi invece cerca di rimandare continuamente la dipartita. Mi ricorda “Signora Bovary” di Guccini dove canta che arrivano per tutti gli ultimi giorni, in cui diremo “un momento aspetti” per non essere mai pronti.
Il nichilismo attivo
Bisognerebbe essere dei nichilisti attivi, cioè distruggere ideologicamente idee precostituite e concetti logori per poi ricreare, ricrearne di nuovi. Si dovrebbe essere iconoclasti in questa civiltà cosiddetta dell’immagine, dovremmo essere demistificatori di ogni falso idolo e di ogni falso mito imposto dal consumismo, dallo show business. Nessuno sa se c’è un’uscita, ma bisogna comportarsi come se ci fosse. Di solito gli uomini hanno due atteggiamenti esistenziali apparentemente mutuamente esclusivi: mortificano l’aldilà per la vita terrena oppure mortificano la vita terrena per l’aldilà. Non ci sono certezze. Si procede a tentoni. Si va per tentativi ed errori. Ci si autocorregge oppure ci si autodistrugge. C’è chi cerca di opporsi con tutte le sue forze al cupio dissolvi della società occidentale e c’è chi vi si getta pienamente. In ogni caso la via di uscita non è mai la fuga né cercare di mettere la testa sotto la sabbia. I problemi restano, nonostante l’evasione, l’evitamento o la negazione. E più passa il tempo più la situazione peggiora e i problemi aumentano, si ingigantiscono. I problemi spesso devono essere risolti dagli uomini perché spesso non sono il tempo o le circostanze a risolverli. Ci sono comunque, anche se succede raramente, dei problemi che si appianano, che si risolvono col tempo. Ma mai fidarsi troppo: bisogna saper intervenire in tempo quando il problema si può ancora risolvere, quando il processo e le dinamiche non sono ancora irreversibili. Che cosa ci resta? Come affrontare la vita è il nostro problema più importante. Max Stirner fonda la sua causa sul nulla. L’uomo d’altronde è sia tutto che nulla. La condizione umana si situa tra il nulla e il tutto, comprendendoli entrambi. È così che siamo a livello ontologico ed esistenziale. Bisognerebbe perciò convivere al tempo stesso con reale e ideale, senza essere troppo platonici o troppo aristotelici, cioè troppo generalizzatori o troppo particolari nei casi della vita, sperando di poter incarnare al meglio le nostre idee.