“Traversai l’oscurità di una cannula,
il fragore mattutino di una pagliuzza.
Annodai ciglia, trapunsi con le mie dita
ali di farfalla. Mi specchiai in raggi di luna.
Venni rifranto dal cristallo. Fui vivisezionato
da un prisma. Fui equilibrista su un filo
interdentale.
Adesso posso, esangue, disfarmi in un minuscolo
punto di inchiostro, su una finitura di un foglio;
questo mondo sempre in eterno mutamento, in
continua metamorfosi, non mi avrà mai.
Onda o corpuscolo ?”
Da “Impercezioni” (1994-1997) di Davide Morelli
La memoria è infedele. La memoria ricostruisce, rielabora continuamente. La memoria enfatizza e migliora il passato, rendendolo a tratti un’età dell’oro. Ognuno racconta la sua storia, rievocando fatti e aneddoti. A seconda dell’umore, della disponibilità mentale, della convenienza sociale riporta certi fatti e ne tralascia altri. Ognuno racconta una storia diversa a seconda dell’interlocutore che ha davanti. Ma è forse importante questo? Bisognerebbe dire tutto, raccontare tutto? Raccontare tutto per limiti mentali e per opportunità sociale non è possibile a nessuno. Addirittura è un esperimento da non tentare. Significherebbe darsi in pasto agli squali e non si può immolarsi così su due piedi (che poi non c’è nessun motivo valido per farlo). Se ci fosse una logica chiara e definita nella vita di ognuno raccontare tutta la verità (ammesso e non concesso che sia possibile) avrebbe un senso. Ma bisogna tener presente l’accidentalità dei nostri incontri, che tessono la nostra storia. È inutile cercare di mettere illusoriamente ordine nella nostra memoria quando a onor del vero nella nostra vita ha sempre regnato il caos, il caso su tutto e su tutti. Che vinca pure l’anarchia nella nostra memoria e nelle nostre narrazioni! Ma ci sono menti talmente aperte e cuori così caldi pronti ad accogliere la nostra verità? No. In tutta onestà no. Così siamo costretti a raccontare solo una parte della storia, a mischiarla con alcune menzogne per renderla più accettabile agli altri. La menzogna è un edulcorante, molto spesso per noi stessi. Chi parla interamente? Chi racconta tutto? A onor del vero nessuno. La nostra onestà morale e intellettuale è tale che non abbiamo la forza né il coraggio di raccontare tutto a noi stessi, di ricordare tutto a noi stessi perché il ricordo talvolta fa male, ci riporta a situazioni, persone, fatti totalmente negativi per noi. Troppa verità fa male agli altri e a noi stessi, senza per questo voler ricorrere necessariamente al gioco di specchi. Ma anche troppe bugie intorbidano troppo le acque, depistano, fanno sbandare il prossimo e sé stessi. Qualche bugia può essere detta a fin di bene, ma mai eccedere troppo. Qualcuno che pensa di saper tutto su di noi vorrà inchiodarci a quei quattro fattarelli che lui ritiene scomodi o scabrosi per noi. In realtà neanche noi stessi ci conosciamo bene. Figuriamoci gli altri! Bisogna sempre rispettare il mistero che circonda ognuno. E inoltre cosa è importante della nostra vita? Quali sono gli eventi che ci segnano veramente? È vero che vivere è narrarsi continuamente, ma non bisogna mai scoprirsi troppo, non bisogna mai mettersi troppo a nudo, non bisogna mai esporsi troppo in un’epoca in cui dominano incontrastate la pornografia del sesso e quella dei sentimenti. Mai darsi troppo perché ci sono belve fameliche pronte a sbranarci. E allora bisogna aggirare gli ostacoli, bisogna seminare le nostre tracce, ma anche cercare di eludere l’ineludibile. Ci sono persone che hanno bisogno di raccontarsi continuamente, mentre altre lo fanno a sprazzi e saltuariamente. Non ci sono regole né leggi a riguardo. È questione di necessità interiore e ognuno è fatto a modo suo nell’animo. Ci sono persone che provano più piacere a raccontare, a narrarsi che a vivere perché raccontarsi significa rivivere e allo stesso tempo guardarsi dentro, sfogarsi, condividere, ricevere approvazione, etc etc. Come Penelope ogni giorno creiamo e distruggiamo la tela della nostra narrazione. Si ha un bel dire quando ci chiedono: “raccontaci la tua storia”. Vivere è percepire il reale, è immergersi nello stato mentale di quell’istante. La nostra storia deve rapportarsi a quel medesimo frangente. Bisogna essere ondivaghi, fluttuare tra gli istanti. Dirò di più: bisogna essere continuamente camaleonti, sfuggire in modo irreprensibile agli altri, diventare inafferrabili, sempre in bilico tra il serio e il faceto, tra il carnale e lo spirituale, tra l’effimero e l’eterno.