Sull’incendio di Hikmet, sul trauma, su “Lettera a un giovane poeta” di Rilke…

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Quando Nazim Hikmet, uno dei più grandi poeti turchi di tutti i tempi (molto amato e citato dagli appassionati di poesia in Italia ma poco studiato da letterati e critici letterari nostrani), rispose in una lettera a Joyce Lussu, sul motivo per cui scriveva non indicò il genocidio armeno, che lui stesso denunciò, né la scrittura come atto di libertà interiore né la fede per il comunismo né la bellezza delle donne nè l’incommensurabilità dell’amore (lui stesso scriveva all’amata che quello che aveva da dire non gliela aveva ancora detto) né la speranza sempre viva in lui nel genere umano oppure la fede ancora più grande nella vita (celebri sono i suoi versi in cui scrive che quando si è sul punto di morire bisogna piantare un albero, sperando di vederlo fiorire) ma un trauma originario infantile: l’incendio della casa dei vicini. Hikmet non rispose esplicitamente perché scrivesse, ma eluse la domanda, riformulandola, e si mise a raccontare brevemente quale fu l’evento scatenante che gli fece scrivere la prima poesia. Oggi molti poeti o aspiranti tali rispondono alla domanda “perché scrivi?”, citando l’abreazione, l’effetto catartico, l’après-coup, insomma l’autoterapia. Ma lo scrittore o il poeta che diventa terapeuta di sé stesso e ha come coterapeuta il suo animale domestico in un quadretto apparentemente idilliaco e bucolico risolve ben poco senza una vera psicoterapia e degli psicofarmaci: i problemi psicologici restano e poi carmina non dant panem! Nel corso del Novecento i più grandi poeti e scrittori hanno assistito e vissuto a degli “incendi”: l’olocausto per Celan e Primo Levi, il confino per Carlo Levi e Pavese, le ingiuste accuse di spionaggio per Silone, il fascismo, il nazismo, le dittature dei paesi comunisti per molti altri. Più recentemente il trauma originario, che perdurò per gran parte della vita, fu la solitudine dell’America Latina in Garcia Marquez, lo stupro e il razzismo in Angelou Mayo, il patriarcato violento in Gavino Ledda, l’esilio e la dittatura cilena in Neruda, il conflitto nordirlandese in Seamus Heaney, il carcere per Hikmet, l’isolamento secolare e la povertà della sua isola in Derek Walcott e la lista potrebbe allungarsi a dismisura. Di solito questi grandi artisti e intellettuali denunciarono soprusi, abusi di potere e ingiustizie, stando dalla parte giusta, ma ci fu anche Ezra Pound, che, per quanto fascista, fu chiuso in una gabbia, esposto alle intemperie, a Coltano, ricevendo un trattamento disumano, che nessuno dovrebbe vivere. Lasciando stare il periodo del mecenatismo e delle corti, i poeti di solito nel corso dei secoli, da Omero in poi, subirono traumi personali e/o collettivi, sofferenze e privazioni. La poesia diventò quindi salvezza e, termine arcaico e desueto ma che rende meglio l’idea, salvazione. Negli ultimi decenni è venuta meno almeno in Italia la poesia civile e i traumi collettivi sono stati rimossi oppure in gran parte omessi, quando va bene affrontati solo marginalmente, dai poeti contemporanei. In questo modo la poesia non è più memoria di un popolo, non è più memoria collettiva, ma viene relegata solo a una dimensione intimista e confessional. E allora ecco che hanno la meglio i cantautori con musiche orecchiabili e un linguaggio meno ricco e più accessibile, condito qua e là a sprazzi da venature di sentimentalismo! Oggi i traumi individuali (solo quelli) di poeti e poetesse vengono talvolta esibiti. Certamente ci sono poeti e poetesse che approdano a brandelli di verità umana tramite il trauma originario, ma oggi ci sono influencer che la massa considera poeti e poeti veri, che per narcisismo, esibizionismo, con la giustificazione dell’autopromozione doverosa per farsi conoscere e per esistere, cercano a tutti i costi di diventare influencer in una confusione continua di ruoli, in cui a vincere è soprattutto il presenzialismo, soprattutto online.
Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere oggi dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un’utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre “Fiorirà l’aspidistra” di Orwell e “Lettere a un giovane poeta” di Rilke. In quest’ultima opera il grande poeta sosteneva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte. Ma spesso trovare la risposta alla domanda “perché scrivo?” risulta molto difficile, impegnativa e richiede scavo interiore e onestà prima di tutto nei confronti di sé stessi. In ogni caso bisognerebbe cercare risposte autentiche.

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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