SULLA MORTE
“Non se n’è nemmeno accorto.”
“Ha fatto tutto da solo. Forse un malore
o una distrazione. Maledetti quei pini!”
“Ha smesso di soffrire dopo
tanti anni, dopo tanto calvario.”
“Il marito ha dato di matto e l’ha uccisa.”
“Ieri rideva con noi.”
“Quel mix di droghe e alcolici
è stato fatale.”
Ci sono morti che finiscono
in una statistica, altre nella cronaca
(quando moriremo battezzeremo
forse gli orgasmi e gli amori
delle donne che non ci hanno ricambiato,
rideremo di chi si affanna per niente,
di chi ruba e ammazza senza rimorso).
Frasi fatte, parole di circostanza,
ironia, falsa pietà, sincera commozione,
stereotipi, luoghi comuni
aspettano anche la nostra dipartita
(camminare all’imbrunire in una piazza
nascosta, mentre una donna ci scruta,
perché siamo gente nuova, mai vista).
La casistica è quasi infinita, illimitata
(ogni morte prevista o imprevista
ha i suoi pro e i suoi contro
per il morente, a detta di chi non
era un suo caro e può giudicare
con più distacco).
La morte può sorprenderci in ogni istante,
trovarci ovunque
(guarda quegli uccelli
che vanno a mangiare i fichi).
Le vite spesso sono divergenti.
La morte è convergente,
tranne che nei processi
e nelle diatribe sull’eredità.
Ciò che conosciamo della morte
lo sappiamo solo per interposta
persona (altri ci ruberanno la scena
o meglio il ruolo di figuranti).
Ecco perché la morte
altrui ci riguarda sempre e comunque.
APPRODI
Approdare? A guardare bene
non esiste nessun approdo.
Abbiamo davvero poche certezze
(si contano sulle dita d’una mano);
sono il nostro terreno che giorno
dopo giorno si sfalda
sotto i piedi. Basta poco,
magari un niente per
smontare le nostre meccaniche
razionali. Importante
è mangiare pane e companatico,
avere salute, essere autosufficienti,
avere da campare (chissà per quanto
ancora poi?), dimenticare i torti subiti,
gli amori non corrisposti,
il disagio, il dolore provato
o che pensavamo di provare
da giovani.
Le auto sfrecciano sulla
circonvallazione, un opuscolo
pubblicitario è in balia del vento
caldo, un anziano porta a spasso
il suo cane; arriva in lontananza
dalle case il vociare delle famiglie,
un uomo brizzolato lava la sua macchina
in giardino, dei ragazzi nello spiazzo
sono a torso nudo sotto
il sole battente e forse
tutti abbiamo margini
di miglioramento, perfino
le nostre esistenze potrebbero
avere margini di miglioramento.
È domenica. La calura ci attanaglia.
I meteorologi dicono che gli anticicloni
subsahariani hanno preso il posto
dell’anticiclone delle Azzorre.
Forse noi sopravviveremo ancora,
ma dall’Antropocene all’abisso
il passo è breve
e nessuno è disposto a fare
piccole rinunce per salvare
le prossime generazioni,
mentre nei circoli letterari
si discute animatamente
se sia meglio in poesia
l’intimismo o l’impersonalità.
Viene sera e confidiamo di impratichirci
ancora con la vita, ora che
qualcuno ci chiede informazioni
e mentre noi ci apprestiamo
a darle se ne va e chiede
ad altri passanti, ritenuti più svegli,
e rimaniamo interdetti sul da farsi
e poi affrettiamo il passo
e ritorniamo a casa;
deve essere così morire:
essere fraintesi totalmente
come degli idioti
o lasciati soli inaspettatamente
nel disinteresse generale
in un pomeriggio estivo qualsiasi
in una strada periferica polverosa.
PEZZO FACILE AL BAR
Andare al solito bar della zona,
gioire momentaneamente
perché è aperto
e chiedersi se ha cambiato
gestione o se le bariste
sono in ferie. Noto che hanno cambiato
gli orari. Bisogna raccogliere indizi.
Guardarsi attorno con aria incuriosita
e un poco indagatrice
per sapere una cosa
che non ci cambierà la vita.
Ora c’è una coppia
di cinesi al banco con relativi pargoli
che girano nel locale.
Si respira un’atmosfera
informale, quasi familiare.
Sedersi un minuto
a sfogliare il giornale,
leggendo solo i titoli
delle prime pagine.
Guardare attorno ludopati,
che vanno trafelati verso
le slot machine,
ragazzi che alzano il gomito
e anziani scortati da badanti.
Insomma la solita routine.
Sono tutte persone, come me
del resto, che conoscono a menadito
il senso della sconfitta.
Sanno che truccare le carte
o bluffare non serve a niente.
e non si disperano della loro sorte.
Con i pochi spiccioli
bere una spuma,
poi sciacquarsi le mani e il viso
nel bagno. Quindi pensare che secondo
le statistiche chi vive solo, vive meno anni.
Di nuovo ritornare a casa.
Durante il cammino chiedersi perché si è altrove
con la testa e se essere altrove
significa essere davvero assenti;
l’altrove è assenza? L’assenza è l’altrove?
Ritornare a casa, fare il solito itinerario da soli,
senza avere nessuno
che ci conforta o che ci disturba,
senza nessuno che ci disturba e che ci conforta:
solitudine, croce e delizia, ristoro e mestizia,
beata e dannata, invocata e temuta, amata e odiata.
Chi è solo vorrebbe circondarsi di tanta gente.
Chi ha troppa gente attorno richiede la solitudine.
Difficile trovare la giusta alchimia o l’equilibrio.
Non ci si riesce che per pochi tratti d’esistenza.
Solitudine, pieno e vuoto dell’animo e della mente.
E però ricordarsi infine che ognuno si trova solo
di fronte a Dio o al niente.