“Una telefonata allunga la vita” (racconto brevissimo minimalista natalizio)…

Credono e dicono che sia pazzo e asociale e molto probabilmente è vero. Dicono che sia un fallito e sicuramente è vero. Passo il tempo a leggere qualche cosa, ma mi annoio subito. Sto spesso nella penombra della mia stanza a riposare, a meditare in solitudine: ore ed ore ogni giorno.  Dal piano di sotto arriva il rumore in sottofondo della televisione.  Mi annoio spesso. Ogni ora e mezzo scendo le scale e vado al frigorifero per prendere un bicchiere d’acqua naturale ghiacciata. Mi schiarisco la gola. Spesso cammino avanti e indietro nella cucina. Guardo fuori dalla finestra. Osservo attentamente gli alberelli di biancospino spogli, le luci delle case, gli operai che lavorano alla palestra della scuola,  il vai e vieni delle macchine e delle persone che vanno al supermercato.  Poi alzo gli occhi e vedo il ritaglio del cielo, quella porzione di cielo che mi è data in sorte da questa casa. Penso che ognuno ha il suo angolo di cielo da ammirare dalla sua postazione quotidiana. Quindi mi perdo nei soliti pensieri abituali. Sono un tipo alquanto ordinario e abitudinario: penso sempre le solite cose, le solite idee; ricordo sempre i soliti ricordi. Sono poche le variazioni del tema. Non sto bene, né sto male. La maggioranza delle volte sto così e così.  Per fortuna ho mio padre, mia madre, mia sorella, anche se loro trascorrono la stragrande maggioranza del loro tempo davanti alla televisione, ma non vogliono sentirsi dire che sono teledipendenti. Loro, il più delle volte, non vogliono essere disturbati; non posso parlare e non posso andare al bar a chiaccherare con qualcuno; non ho voglia di andare a raccontare la mia vita a qualche estrane*. Ora sono qui che sto pensando agli anni ’90 e mi chiedo se erano davvero belli o se erano solo belli perché ero giovane o se invece nei ricordi enfatizziamo e miglioriamo la realtà.  Allora avevo molti più soldi in tasca e molta più libertà di azione. Prendevo i treni e viaggiavo. Ora è da cinque anni che non prendo un treno. L’ultima volta siamo andati a Pisa io e Lele per fare un giro e ci siamo fermati al Gambrinus, vicino alla stazione, per farci due birre e stavamo entrambi così bene a veder passare la gente, a contemplare i visi delle studentesse che andavano di fretta e un sorso tirava l’altro e le parole correvano libere e il tempo passava così veloce. Non parliamo delle vacanze perché è da quindici anni che non le faccio.  Sono un tipo stanziale, come avrete capito. Quando, una volta al mese, esco con Lele, andiamo al ristorante cinese oppure ordiniamo due pizze e le mangiamo a casa oppure andiamo a farci un kebab. Pontedera è deserta i lunedì sera d’inverno, come di questi tempi. A ogni modo passo la maggior parte dei miei giorni scambiando poche parole coi miei familiari. Quasi ogni giorno ci sentiamo io e Lele. Parliamo del più e del meno. Scherziamo. Ci raccontiamo aneddoti e barzellette. Lo chiamo io e poi lui quando è libero mi richiama. Parliamo di come ci vanno le cose, di come va l’Italia, di come va il mondo, delle sue contraddizioni e ingiustizie. Ci diciamo che la vita è sempre più precaria, raggiunta la cinquantina. Lui per lavoro è costretto a viaggiare e vedere sempre gente, facendo il rappresentante.  Io, essendo disoccupato,  sono condannato a viaggiare il meno possibile per risparmiare. La mattina presto, all’alba, vado a piedi al bar davanti all’ospedale a prendere un cappuccino. Poi verso le 9 del mattino vado con mio padre a fare alcune commissioni. Di solito impieghiamo tre quarti d’ora. Andiamo in macchina. Ascoltiamo la radio. Lasciamo i finestrini socchiusi. E le donne? Non esco con una donna da più di dieci anni. Le ragazze con cui sono stato, le amiche di una sera, etc etc le ho tutte perse di vista. Gli amici di un tempo sono perfettamente integrati e non trovano mai il tempo o il modo di vedermi oppure sono morti. Insomma l’unico mio collegamento reale col mondo esterno è Lele, che mi racconta la sua vita di società.  Per il resto ci sono i contatti, i cosiddetti amici dei social, con cui interagisco poco e male. D’altronde l’obiettivo dei social sarebbe quello di ritrovare vecchi amic* persi di vista. Io invece ho sempre cercato di fare nuove amicizie virtuali. E poi non sono piacente, sono disoccupato,  non sono comunista ma un anarchico anticomunista. Insomma non sono un tipo appetibile con cui socializzare nemmeno virtualmente.  Però la colpa è anche mia, dato che non ho mai voluto incontrare nessun* di persona ogni volta che si presentava l’occasione (vuoi perché non volevo prendermi il Covid e contagiare i miei genitori anziani, vuoi perché non volevo deludere le aspettative,  vuoi perché non volevo parlare per quattro ore di poesia, vuoi perché non credo nell’amicizia tra uomo e donna). Non sono un uomo in crisi, ma ho i miei momenti di crisi. Una volta stavo guardando dei video porno amatoriali (premetto che non sono pornodipendente ma solo un fruitore molto occasionale di porno). Ebbene spengo il tablet.  Avevo visto donne che facevano sesso con sconosciuti, esibizionisti che facevano sesso sul treno o sull’autobus con sconosciute, anziani con diciottenni, etc etc. Mi sono detto che qui facevano sesso tutti con tutte e io ero l’unico fesso, l’unico solo. Mi sono detto che la mia condizione esistenziale mi stava stretta, che dovevo a ogni costo rompere la solitudine.  Ma la domanda era come uscire da questo labirinto o deserto in cui mi trovavo da anni. Per tanto tempo ero riuscito a stare bene, a non pensarci. All’improvviso però in modo totalmente banale e casuale e aggiungo anche superficiale  tutto il negativo della mia vita era riemerso.  Tolto ogni inganno, tolta ogni illusione mi ero trovato faccia a faccia con la mia solitudine. Da una parte migliaia di corpi giovani e vecchi che si avvvinghiavano e si davano piacere senza alcun imbarazzo. Dall’altra parte c’ero io da solo. Questa era la realtà. Mi sono detto: vita lavorativa inesistente, vita sessuale inesistente,  vita sociale scarsissima.  Ho pensato per un istante a ingurgitare venti statine o venti aspirine a stomaco vuoto. Ero preso dallo sconforto. Mi è arrivata una telefonata di Lele, ma è cascata la linea. Ho aspettato. Due minuti dopo è arrivata un’altra telefonata ed è cascata di nuovo la linea. Ho riacceso il tablet. Mi sono messo a controllare la posta elettronica,  ma avevo il magone. Arriva la terza telefonata di Lele. Questa volta la linea non cade. Mi dice che la devo smettere di buttare giù il telefono.  Io gli dico che pensavo fosse lui. Gli confesso che sono giù. Lui mi risponde che era a casa del suo povero fratello e stava male perché troppi ricordi affollavano la sua mente. Così ci mettiamo a parlare liberamente per un’ora e ci sfoghiamo reciprocamente.  Avere un amico talvolta è un vero toccasana, una vera benedizione.  Mi sono comunque ripetuto che non dovevo rimanere prigioniero di un istante (espressione di Mario Luzi in un suo racconto) e mi dovevo sempre ricordare che se stavo passando un periodo buio non era assolutamente detto che questo durasse per tutta la vita. 

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Nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Collaboratore di testate giornalistiche online, blog culturali, riviste letterarie, case editrici. Si muove tra il pensiero libertario di B.Russell, di Chomsky, le idee liberali di Popper ed è per un'etica laica. Soprattutto un libero pensatore indipendente e naturalmente apartitico. All'atto pratico disoccupato.

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