Cosa ti viene in mente quando pensi all’autorità? Io per qualche motivo ne ho un’immagine ottocentesca. Mi si paventa un uomo terribilmente rispettabile, con i baffi, dietro a una cattedra. Magari pure con un bastoncino. Dev’essere un’immagine che mi hanno trasmesso i miei dal loro subconscio novecentesco. La scuola, la famiglia, lo Stato, Dio (quello con la barba, non quello che sta dentro a tutte le cose). L’immagine di una piramide. L’autorità come qualcosa di oggettivo, pesante, dall’alto. Qualcosa che costringe, che corregge, che disallinea e devasta tutto il dentro pur di poter mantenere una parvenza di quello che chiama “ordine” nel fuori.
Eppure, le parole hanno una vita. Anche loro nascono, come noi, lentamente, come noi si espandono mescolando strati, cultura, storia, geografia e poesia. Poi pare che muoiano. Se ne trovano tracce secoli dopo nella forma di geroglifici scritti. Cosa ci dice la parola “autorità” su se stessa? Che viaggio ha fatto per arrivare fino a noi? Le piace essere associata a un patriarca baffuto?
“Autorità” viene dal latino “auctoritas”, che a sua volta viene da “auctor”, cioè “autore” (sì, l’originale è maschile, il patriarcato è più vecchio dell’impero romano, scusate). L’autorità, banalmente, è quindi il fatto di essere autor* di qualcosa. Qualcosa che fai tu. Un* scrittor* ha l’autorità del suo libro. Un* murator* ha l’autorità del suo muro. Un* lavorator* ha l’autorità del frutto del proprio lavoro. Lasciando perdere analisi storiche dell’impero romano nel quale questa parola si è formata, trovo una sorprendente liberazione in questa etimologia. L’autorità cessa di essere qualcosa di esterno per diventare semplicemente un riconoscimento del potere creativo della nostra esistenza soggettiva.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’autorità non è di chi comanda. Non è dal controllo che deriva la sua legittimità. In questa visione, l’autorità è di chi crea, cioè di tutt* noi, che siamo l* autor* del nostro tempo, della nostra esistenza, del mondo e il modo in cui viviamo. Io, autor* dei miei movimenti, ho quindi la piena autorità del (ma non sul!) mio corpo, a discapito di qualsiasi norma sociale (con l’eccezione di quella del mutuo rispetto). L’autorità cessa così di essere un punto di partenza per la costruzione del mondo, e diventa piuttosto un suo effetto collaterale, una conseguenza naturale dell’atto di esistere, di dire, di fare, collettivamente e individualmente.
Notoriamente, il dogma teme una cosa più di tutte: che venga messo in discussione suo padre. Chi è il padre del dogma? È il dogma dei dogmi, quello che dice che i dogmi non si mettono mai in discussione (“e chi lo contesta? Poi tocca mettere in discussione tutto! Sarebbe l’anarchia!”). È il principio del non fare domande, ossia il principio della paura, del “è così perché lo dico io”, il principio che lentamente e bruscamente ci comprime e ci livella dal giorno in cui nasciamo in poi per renderci accettabili e prevedibili, fino a che accumuliamo tante rassegnazioni da diventare adult*.
Il recupero del potere creativo è quindi recupero del diritto collettivo/individuale all’autorità della propria vita. Rivedere il potere come atto espressivo invece che di prevaricazione, ci rivela quindi subito che l’autorità del dogma era, a dire il vero, solo un inganno (che come tutti gli inganni, passa il tempo a proclamarsi verità).
Come recita una poesia condivisa con me da un compagno:
Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.
– Franco Arminio