Vite d’artista e altre leggende

Quando si studia arte a scuola o quando ci si imbatte nei suoi più celebri rappresentanti (presenti e passati), si tende ad avere un’idea piuttosto favolistica di quel che caratterizza il lavoro dell’artista. Ad esempio, si immagina che questi, nel chiuso delle sue stanze, lavori alla tal opera per un tempo indefinito e che ne esca poi stravolto e sull’orlo del delirio, avendo consegnato al mondo un capolavoro assoluto. Anche, si suppone che tutti coloro che vadano imbattendosi nel sopra detto, rimangano stravolti dallo stupore e immediatamente la grandezza dell’opera risulti chiara a tutti.

Forse uno degli elementi di maggior interesse di uno studio solo un po’ più accurato degli esponenti dell’arte, unito all’opportunità di bazzicare circoli e circolini contemporanei del genere, è quello di svelare un sacco di cose interessanti attorno alle normali vite dell’artista e a come l’opera si costruisca da un punto di vista sociale.

Tra i musei che maggiormente mi hanno fatto apprezzare questa lezione, vi è il Leopold Museum di Vienna. Questi, sede delle opere di grandissime personalità dell’espressionismo austriaco, risparmia ai suoi visitatori quel genere di targhetta insulsa in cui vagheggiano dettagli tecnici, e conduce il fruitore nei meandri dell’arte come mestiere, di cui l’opera d’arte assoluta non è che uno degli esiti. Per ‘lavoro’ non intendo la professione -che pure rientra nel discorso- ma intendo quella fitta serie di faticose azioni che richiedono tempo e cervello affinché l’opera possa esistere, mantenersi ed essere fruita. Particolarmente entusiasmanti, in questa prospettiva, i carteggi che il museo offre alla vista. Lettere che i grandi pittori spedivano ad amici, colleghi, impresari. Lungi da una visione romantica, apprendevo del mio adorato Hegon Schiele mentre, in dialogo con altri pittori, si adoperava per promuovere questa o quella iniziativa. In tali carteggi abbiamo testimonianza di diatribe, entusiasmi, speranze, dubbi, richieste di confronti e tentativi andati male.

Ma come! Dice il fruitore: ma lui era Schiele!

Ecco, questo è un tipico pensiero da postero.

Il nostro Klimt, a tal punto emblema di arte da arrivare a essere stampato sulle sciarpe di acrilico da quattro soldi, non è più quel tale posseduto dal daimon che un bel giorno dipinse ‘L’abbraccio’ (per carità: è lui!), ma un professionista laborioso e talentuosissimo che ha lavorato su innumerevoli progetti, dovendo talvolta arrangiarsi e subendo controversie (si veda l’impasse circa i quadri a lui commissionati dall’Università di Vienna).

Un altro elemento forse non sufficientemente apprezzato dell’artista è dato dall’impatto della dimensione economica sulla sua produzione. Naturalmente, quello dell’artista povero in canna è uno stereotipo fin troppo noto; ma qui, come si diceva, è della vita di ogni artista normale che piace riflettere. Gli artisti che possono vantare un tale successo da avere invaso il mercato dei gadget sono pochissimi e, per lo più, morti -Sono poi stati così diffusamente capiti? A seguire, vi è senza dubbio un numero non elevatissimo di artisti che vivono delle proprie opere d’arte. Dopodiché, in numero ancora crescente, vi sono gli artisti che utilizzano le tecniche della propria arte nell’insegnamento o in prestito al mercato. Il fotografo che insegna fotografia e che lavora nel campo della moda, riservando al tempo del weekend lo spazio per la propria ricerca, è un classico esempio. I contenuti della docenza o i dettami del mercato, pur se applicati nel campo dell’arte, difficilmente corrispondono alla peculiare ricerca espressiva di un artista. Il finanziamento duro e puro della sperimentazione creativa, si sa, è una merce rara. Infine, vi sono gli artisti che si manifestano sporadicamente, vale a dire coloro che si trovano a fare i mestieri più vari e relegano l’arte a un tempo che, se non è rubato al lavoro, è certamente rubato a qualcos’altro (fidanzati, figli, anziani genitori, Opera San Francesco) poiché, va da sé, non c’è niente di più disutile dell’arte.

Eccoci distanti dall’artista maledetto. L’artista normale è un individuo ossessionato dalla necessità di giustificarsi. Egli è continuamente alla ricerca della quadratura del cerchio. Il tempo, il denaro, le energie destinati alla ricerca sono perpetuo oggetto di interrogazione poiché, non sottratti alla logica materiale del mondo circostante (e per fortuna, sennò chissà quale ipertrofismo intellettuale li coglierebbe), si possono trovare a dover scegliere tra un weekend al mare e un certo materiale per la pittura, e questo anche là dove la propria opera non è in vendita.

È vero che la teoria dell’homo oeconomics è stata confutata da un pezzo, ma sempre mi piace ribadirne gli aspetti fallaci. Se da un lato è noto che gli aspetti materiali condizionano profondamente i percorsi di vita degli artisti e, dunque, il modo in cui opere di valore (non) arrivano al vasto pubblico, è vero anche che questi sanno ricavarsi la loro arte sul niente, pur di assecondarla. E questo perché l’arte non è un mestiere, né un hobby, l’arte è una sensibilità e un’esigenza esistenziale per chi l’ha.

Studiando la nascita dell’illustrazione come concetto moderno, mi sono imbattuta in un’altra serie di cose emblematiche circa la figura dell’artista normale, che qui riporto. Innanzitutto, questi e la sua opera non sopravvivono se non vengono protetti. Non dubito che opere magnificenti siano state prodotte sulla faccia della terra senza che alcuno lo sappia; tuttavia, l’opera ha bisogno di essere protetta e manutenuta per il tramite di accordi sociali. La forza di un’opera d’arte non è completamente auto sussistente. Che siano diritti d’autore, accessi limitati, non riproducibilità, persino rivendicazione di gratuità o casseforti: l’opera deve avere un sistema che la riconosca, conservi e valorizzi. Fosse anche un baule in cantina, un baule come quello in cui un giorno un tale tirò fuori l’opera di Vivian Mayer… Difendere l’arte è una capacità immunitaria che devono sviluppare i sistemi collettivi, ma anche i singoli artisti. L’editoria e il mondo dell’illustrazione pullulano di opere che non vengono difese e in questo l’originalità dell’arte è persa, mistificata, orfana. Gli artisti normali devono occuparsi anche di questo e l’esplosione del mito IA non aiuta.

Un’altra riflessione circa gli artisti normali riguarda le loro ossessioni e, di contro, la loro fragilità psicologica. In particolare, sempre mi stupisce apprendere l’importanza che singoli rapporti possano aver avuto nello sviluppo di opere. Non intendo prosaicamente rapporti d’amore romantico, quanto connessioni dalla natura anche molto estesa. Colleghi, mentori, amanti, antagonisti, insomma una serie variabile di personalità la cui connessione con l’artista diventa propulsiva rispetto alla sua arte. E, di converso, come questi rapporti abbiano potuto segnare anche, degli artisti, l’allontanamento dalla propria vocazione. Le aspre critiche di un mentore, o la scomparsa di una personalità legata, diventano interruzioni dell’opera, buchi temporali nella ricerca. E così, al fronte di una biografia in cui si dice ‘per dieci anni l’artista tal dei tali non produsse opere’, provo sempre un sentimento di forte disagio. No! Mi verrebbe da dire: come hai potuto fare questo! Come hai potuto assentarti dalla tua arte: noi avevamo bisogno di te!

Ma questo è sempre un pensiero da posteri…

Restando nel filone delle latitanze dall’arte (condizione normale dei sopra detti artisti sporadici), abbiamo coloro le cui assenze sono dettate da condizionamenti oltre che economici, anche sociali familiari. Sentivo alla radio di una tal artista piuttosto anziana che aveva iniziato a esporre la propria opera in giro per il mondo verso i sessantacinque. Quando l’intervistatrice le chiedeva ‘come mai è stata scoperta tardivamente?’. Lei rispondeva con candore: ‘io sono stata madre di quattro figli, e poi nonna. Davvero, non avevo tempo’. Senza scomodare ‘Una stanza tutta per sé’ o altre -poiché non è di questioni di genere applicate al settore di cui voglio scrivere- trovo importante condividere tutto ciò.

Ancora, una cosa che ho imparato spiluccando qua e là la letteratura sul genere, o semplicemente fruendo l’arte di autori di lungo corso, è che questa non è una proprietà che accompagna un autore durante l’intera sua vita. L’arte, la poesia, non sono attributi della persona in senso assoluto. Sono manifestazioni di una sensibilità che subisce variazioni. Gli artisti possono avere estro per un determinato periodo della propria vita, magari, sì, per tutta la vita, ma accade anche che l’estro venga meno. Quel che comunemente potremmo definire ‘autore bollito’ corrisponde per l’appunto all’ex artista che non molla. Bene fanno coloro che, riconoscendo di sé la fine dell’arte come esigenza di vita, non pretendono di farla ancora, ritornando su antichi leit motiv.

L’artista normale non ha addetti al trucco parrucco o gente che gli asciuga il sudore sulla fronte, egli è uno e trino: di sé medesimo addetto al procurement, al trasporto materiali, alla cura dell’immagine, al catering, al copy righting eccetera eccetera – Ma forse è proprio tutto questo daffare che lo fa felice, talvolta? L’artista normale è, sempre, prima di tutto un laborioso artigiano.

Egli ha un rapporto controverso con la propria opera. A volte quelle più apprezzate gli sono venute fuori per sbaglio, altre, quelle in cui ha riversato tutto sé stesso, non piacciono. Un’opera particolarmente amata dal vasto pubblico può diventare una specie di persecuzione e un impedimento al rinnovarsi, qualcosa di cui si è stufato di parlare, o un oggetto su cui lui stesso non sa fare chiarezza. Gli artisti normali devono stare attenti a non incorrere nel pericolo della lusinga ed essere pronti ad abbandonare porti sicuri. Cambiare tratto è un’operazione rischiosa, ma può essere un’esigenza da ascoltare con coraggio. Noi fruitori, in tutto questo, abbiamo un peso.

E insomma quel che volevo dire, alla fine, è che ho maturato il sospetto che gli artisti siano animali molto più gregari e meno favolistici di quanto non si possa supporre e che, se è vero che serve una relazione sociale per farli emergere e riconoscere come tali, questi esistono anche in un vasto intermondo fatto di ordinarietà, discontinuità creative, silenziosi sacrifici, casualità, artigianato, ove pochi o nessuno si accorge di loro, o solo di tanto in tanto. Ma anche in assenza di capolavori assoluti, il mondo continua a offrirsi loro come un curioso codice artistico e quella che all’apparenza sembrerebbe la loro doppia vita, altro non è che la vita normale di ogni artista.

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Isabella Capurso, autrice milanese, dopo la laurea in Geografia umana consegue un dottorato in Sociologia urbana. Durante gli studi, si trasferisce a Parigi dove termina la tesi e lavora come ricercatrice al tema del rapporto tra società e natura. Lavora in seguito nell’ambito di progetti inerenti a temi ambientali e sociali in alcune aree urbane dell’Europa, dell’Africa francofona e del Sud Africa. L’autrice pubblica articoli accademici e di divulgazione scientifica dal 2012 ed è, ad oggi, impegnata come consulente nel settore della sostenibilità.
Parallelamente alle attività professionali, l’autrice ha coltivato l’amore per la scrittura e le arti grafiche. Nel 2017 acquista a Milano uno spazio, Le Poisson Lumière, che adibisce a laboratorio creativo. Qui organizza e ospita esposizioni, eventi culturali e presentazioni di libri, all’insegna della condivisione senza scopo di lucro.
Ha pubblicato nel 2021 la raccolta di poesie ‘Il pesce lanterna’ per Gattomerlino Edizioni, recensito sulla rivista letteraria ‘L’Estroverso’, e nel 2022 la raccolta di racconti ‘Corale’ per LFA Publisher, presente al Salone Internazionale del Libro di Torino (2022). Pubblica ‘Sacro e urbano’ nel settembre 2022. Il libro vince il premio nazionale cine-letterario Bookciak, Azione!, nella sezione Poesia, ed è classificato tra i dieci libri più venduti dalla piccola e media editoria, nello stesso anno.
Nel 2023, esordisce come autrice di teatro con la drammaturgia ‘Il cuore’, in scena al Politeatro di Milano.
Alcuni disegni dell’autrice sono editi come copertine di libri.
Dal 2020 vive tra Milano e una piccola comunità rurale in Calabria.
Dal 2023, scrive stabilmente su ‘Assonanze’, rivista di critica cine-letteraria di Garavaglia e Moscati.

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