Vittorini nell’editoriale del primo numero de “Il Politecnico” esprimeva la necessità del rinnovamento: non più una cultura che consolasse l’uomo dalle sofferenze ma una cultura che combattesse la fame e le sofferenze. Inoltre si chiedeva perché la cultura non fosse diventata società e perché la cultura degli antichi greci e di Cristo non avesse permeato la società. Ciò che non sfiorava minimamente Vittorini è che la cultura nasce dalla natura e nella natura umana è iscritta la violenza, perciò parte della cultura è violenza o viene deformata a proprio piacimento dai violenti. Come scriveva Rebora, “Cristo ha ragione, ma Machiavelli vince”. Inoltre il legame tra cultura, società, civiltà è controverso e molto complesso: i sociologi si sono accapigliati sulla questione, alcuni ritenendo sinonimi civiltà e cultura, altri facendo sottili distinguo. Per quanto riguarda il rapporto tra politica e cultura, mentre Togliatti voleva subordinare la seconda alla prima, Vittorini era dell’idea opposta perché gli intellettuali, anche quelli organici, dovevano rimanere coscienze vigili e critiche, non suonando sempre “il piffero della rivoluzione”. A ogni modo proviamo a fare il punto della situazione oggi. La filosofia aveva sempre interpretato il mondo, ma con Marx aveva iniziato a cercare di trasformare la realtà. Per Gramsci per fare ciò ci voleva l’egemonia culturale: gli intellettuali dovevano essere cinghia di trasmissione, dovevano far prendere coscienza della situazione al popolo, dovevano essere dei canarini nella miniera, come sosteneva Vidal. La cultura nei secoli era sempre stata il latinorum di Don Abbondio: strumento di potere, di difesa dei privilegi, di legittimazione delle ingiustizie. Come aveva insegnato Don Milani sapere più parole per i poveri era un modo efficace per difendere i propri diritti e per capire meglio la realtà. Quando c’era una netta divisione in classi i nobili avevano il precettore privato e i poveri erano analfabeti. Prima del’68 le nobildonne sapevano a memoria Omero e Dante e il popolo aveva sì e no la quinta elementare. Oggi c’è un grande livellamento verso il basso con l’università di massa e c’è una mobilità sociale, ancora inferiore a molti altri Paesi occidentali, ma impensabile cinquant’anni fa quando molti facevano il mestiere del padre. Oggi potremmo affermare che la cultura non trasforma più la realtà. Ma quale cultura? Se pensiamo secondo un antico pregiudizio che la cultura sia soprattutto la cultura umanistica, questo è vero in gran parte ma non totalmente. Se pensiamo che la cultura sia anche quella scientifica, legale, economica, organizzativa, informatica, ebbene dobbiamo ammettere che essa cambia ogni giorno radicalmente il mondo, trasformandolo a suo piacimento. Inoltre c’è una parte degli umanisti (psicologi, psichiatri, linguisti, semiologi, sociologi, giornalisti, letterati, filosofi, etc etc) che lavora nei mass media fianco a fianco degli ingegneri e di chi ha una formazione scientifica, costituendo insieme a questi ultimi una tecnostruttura variegata e composita. Diciamo che una parte degli umanisti si vende al migliore offerente e utilizza le conoscenze per i mass media e per lo show business, che interpretano e trasformano a loro immagine e somiglianza il mondo. Questi umanisti non utilizzano la loro cultura per migliorare il mondo ma servono unicamente il potere massmediatico. Ci sono gli altri umanisti, che per mangiare non denunciano questo stato di cose, ma si accontentano di avere il loro posticino nel mondo, autogiustificandosi, autoassolvendosi tra scuse plausibili e pacifica accettazione del darwinismo socioeconomico. L’appello di Vittorini al rinnovamento culturale da parte degli intellettuali di tutti gli orientamenti politici, di tutti i posizionamenti è caduto nel vuoto. Ci sono ancora troppi settarismi, troppe divisioni, troppe contrapposizioni, troppi muri invisibili, troppi odi. Ancora oggi c’è nell’aria un odio cortese, quell’odore cortese di cui scriveva Fortini, e un clima perenne da resa dei conti in un Paese in cui anche gli intellettuali sono attaccati come i politici alle poltrone, anzi alle cattedre tra attese nervose che vadano al potere i loro referenti, clientelismo, nepotismo, cooptazione, ricattabilità, amichettismo, compromessi sessuali, etc etc. I conservatori difendono i privilegi, spesso confondendoli con i meriti. Il progressismo è diventato conformismo di un preteso anticonformismo. Gli intellettuali sono succubi della cultura di massa, dei mass media e dello show business, che dovrebbero combattere senza se e senza ma. Se scendi in piazza i mass media non danno risalto alla notizia, se protesti in modo più energico sei un delinquente. Gli insegnanti e i docenti che dovrebbero formare i giovani perdono sempre una lotta impari perché i giovani vengono formati non più da loro o dalla famiglia ma da mass media e nuovi media. Cosa può fare allora la cultura in un mondo in cui vince un’industria culturale, di cui scriveva Adorno, diventata in gran parte intrattenimento, e in cui le coscienze e gli inconsci di moltissimi vengono plasmati incessantemente dal grande bombardamento massmediatico? La lotta è impari. La guerra è persa in partenza. L’Italia intanto è in mano alle multinazionali, alle lobby affaristiche, alle massonerie nazionali e internazionali, alle mafie, ai corporativismi, ai fondi d’investimento, agli industriali del Nord, ai politici. Chi si adegua a questo stato di cose è un furbo, chi si oppone è un fesso: Prezzolini ha ancora oggi ragione. E la cultura oggi non è più neanche consolatoria, come ai tempi di Vittorini!!!
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