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La paralisi della politica e il vuoto della rappresentanza
C’è un grande vuoto che attraversa la politica contemporanea.
Da una parte, l’avanzata globale delle destre radicali — da Trump agli ultraconservatori europei — che cavalcano paura, rancore e identità ferita. Dall’altra, una sinistra ormai prigioniera del proprio linguaggio istituzionale, incapace di parlare alle persone reali.
Nel mezzo, milioni di cittadini che hanno smesso di crederci.
Astensionismo record e crisi della sinistra libertaria in Italia
In Italia, questo vuoto si vede con una chiarezza spietata: l’astensionismo record è diventato il vero partito di maggioranza. Non è disinteresse, è un voto di sfiducia. È la risposta di chi ha visto la sinistra gestire le stesse politiche neoliberiste della destra, privatizzare i beni comuni, precarizzare il lavoro e chiamarlo “modernizzazione”.
Il mercato che ha colonizzato la democrazia
Come direbbe Noam Chomsky, la democrazia è stata svuotata dall’interno, mentre il potere economico ha continuato a dettare le regole del gioco. Non serve più un colpo di stato quando il mercato ha già colonizzato la politica.
E così, di elezione in elezione, ci ritroviamo davanti allo stesso bivio finto: o l’autoritarismo di una destra che promette ordine e sicurezza, o la gestione “più umana” di un sistema che resta ingiusto.
Ma il risultato non cambia: il conflitto si sposta dai palazzi ai margini della società, dove cresce la rabbia, la paura e la solitudine politica.
Intanto, i governi — di qualunque colore — spingono nella stessa direzione: più spese militari, più riarmo, più fedeltà ai blocchi economici e strategici dominanti.
È come se l’intero pianeta fosse intrappolato in una logica binaria, uno scontro tra potenze che si autoalimentano. Eppure, mentre i blocchi si consolidano, l’unica alternativa credibile — un fronte popolare, democratico e libertario — non riesce nemmeno a emergere.
E allora, la domanda è inevitabile: esiste ancora uno spazio per la speranza politica?
O siamo destinati a scegliere solo tra due versioni dello stesso dominio?
L’eclissi delle alternative progressiste
La crisi della sinistra libertaria in Italia non è solo elettorale: è culturale, etica, perfino linguistica.
Per anni, i partiti riformisti hanno scelto di convivere con il capitalismo estremo, limitandosi a gestirlo “con più sensibilità”. Ma la gestione non è cambiamento. Così, il risultato è stato un progressivo svuotamento della propria base sociale, un allontanamento dei lavoratori, dei precari, delle classi popolari.
Perché la sinistra parlamentare non convince più
La sinistra parlamentare italiana, nella sua forma attuale, non propone un’alternativa radicale al neoliberismo, ma una sua versione “umanizzata”. Il problema è che il neoliberismo, anche nella versione soft, continua a produrre disuguaglianze, precarietà e perdita di diritti. È per questo che l’astensionismo record e l’avanzata della destra radicale sono le due facce della stessa crisi: la prima è il rifiuto, la seconda è la fuga in avanti.
L’ambivalenza geopolitica e il rifiuto della libertà
Come ricordava Noam Chomsky, quando la politica non offre alternative, “la rabbia popolare viene catturata e indirizzata verso bersagli falsi”. Ed è proprio ciò che accade oggi: la frustrazione sociale viene trasformata in rancore contro i migranti, l’Europa, i poveri stessi. È una fabbrica del consenso al contrario, che alimenta la destra mentre svuota la democrazia.
Sul fronte più radicale, la sinistra extraparlamentare resta prigioniera di un’ambivalenza geopolitica: simpatizza per regimi autoritari solo perché anti-occidentali, ma dimentica che la libertà non è negoziabile. Si parla di BRICS e di “mondo multipolare”, ma un multipolarismo senza diritti e democrazia non è un progresso — è solo un’altra forma di dominio.
E allora, la domanda torna centrale: può esistere una sinistra libertaria e non allineata che rifiuti allo stesso tempo la logica dei blocchi e la complicità con il potere economico?
Perché senza una proposta etica, popolare e coerente, la crisi della sinistra e il fallimento delle politiche neoliberiste continueranno a lasciare campo libero a chi promette soluzioni autoritarie.
Geopolitica del conflitto e logica dei blocchi
Viviamo dentro una geopolitica del conflitto e del dominio globale.
Le grandi potenze — Russia, Cina, Stati Uniti, e l’Europa al seguito — hanno trasformato la politica internazionale in un campo di battaglia permanente. La corsa al riarmo non è più solo un riflesso della paura, ma un vero modello di sviluppo.
In Italia e in Europa si parla ormai di portare le spese militari al 5% del PIL, come se la sicurezza potesse essere comprata a suon di missili e droni. Ma ogni euro speso per la guerra è un euro tolto a sanità, istruzione, ambiente, e al diritto a una vita dignitosa.
È una militarizzazione globale che serve a mantenere in piedi un sistema economico in crisi. Lo spiegava già Noam Chomsky: quando il consenso democratico vacilla, i governi usano la paura e il conflitto per riconquistare legittimità. L’“altro” — che sia il migrante, il nemico estero o il dissidente interno — diventa lo strumento con cui il potere si giustifica.
Oggi la fabbrica del consenso passa attraverso la fabbrica della paura.
Dallo scontro tra NATO e BRICS alla militarizzazione globale
Ma il rischio non arriva solo dall’Occidente militarizzato. Anche i blocchi alternativi, come Russia, Cina o Turchia, mostrano un volto autoritario e repressivo. La logica dei blocchi alimenta l’estremismo su scala globale: lo vediamo nel sostegno acritico di molti governi occidentali a politiche estreme, come quelle del governo Netanyahu, anche di fronte ad accuse di genocidio. Questo estremismo si riflette anche nelle società: assistiamo a una fascistizzazione del dibattito politico che rende intollerabile la critica. In diverse comunità, incluse alcune comunità ebraiche, chi non accetta l’operato del governo israeliano viene marginalizzato e aggredito. Contemporaneamente, in paesi come i Paesi Bassi, le autorità arrivano a vietare organizzazioni antifasciste (Antifa), equiparando di fatto la resistenza all’estrema destra al terrorismo. L’obiettivo è sempre lo stesso: disciplinare il dissenso. Che si tratti di militarizzazione o di repressione interna, l’effetto è di soffocare la possibilità di un dibattito democratico e radicale.
La verità è che lo scontro tra blocchi Russia-Cina-Occidente non ha nulla a che vedere con la giustizia o la pace. È una contesa tra poteri, non tra visioni di società.
La contesa tra poteri: nessun blocco è giusto
In questo scenario, le strategie di pace contro la logica dei blocchi diventano la sfida politica più urgente del nostro tempo.
Come difendersi da paesi autoritari pacificamente?
Come opporsi alla guerra senza restare disarmati di fronte all’aggressione?
Una risposta possibile è quella che alcuni movimenti definiscono “sicurezza umana e non armata”: costruire difese civili, sociali e tecnologiche che non passino per l’escalation militare. La difesa civile nonviolenta come strategia di sicurezza non è utopia — è visione realistica per un mondo dove le guerre non si possono più vincere, ma solo moltiplicare.
Serve un pensiero capace di andare oltre i blocchi, un non-allineamento etico che rimetta al centro i diritti umani, la sovranità democratica e la cooperazione internazionale.
E qui si apre la prospettiva di una Terza Via politica ed economica, non come compromesso, ma come rifiuto di entrambe le logiche di dominio.
Una via che unisca libertà e giustizia, etica e solidarietà, riprendendo la lezione di chi — da Chomsky a Bookchin — ci ricorda che la pace non nasce dall’equilibrio della paura, ma dal potere condiviso delle comunità libere.
Verso una terza via libertaria e popolare
Ogni crisi è anche un’occasione.
Se la sinistra è prigioniera del proprio linguaggio e la destra si nutre di paura e disuguaglianza, allora serve una nuova grammatica politica, un linguaggio capace di restituire senso, speranza e potere alle persone.
Costruire un blocco democratico, non allineato e pacifista
Questa nuova visione potremmo chiamarla “Terza Via”, ma non nel senso del compromesso blairiano o del centrismo riformista: parliamo di una Terza Via politica ed economica che unisca libertà, democrazia diretta, giustizia sociale ed ecologia.
Un blocco democratico, popolare e libertario che rifiuti tanto il capitalismo estremo quanto l’autoritarismo di Stato, proponendo un’alternativa reale al dominio dei blocchi di potere globali.
Economia popolare e sovranità sociale
Il primo pilastro è l’economia solidale e la sovranità sociale.
Non un’utopia, ma una direzione concreta: cooperazione locale, filiere etiche, comunità energetiche, mutualismo, autogestione del lavoro.
Significa superamento del neoliberismo e della guerra come strumenti economici e culturali, sostituiti da un modello che valorizzi i beni comuni, la redistribuzione e la dignità.
È la risposta a un sistema che ha trasformato tutto in merce, anche la vita.
Geopolitica etica: rifiuto dei blocchi (NATO-BRICS)
Il secondo pilastro è la politica di non-allineamento etico.
Non si tratta di neutralità, ma di rifiuto dei blocchi NATO e BRICS, perché entrambi fondati sulla stessa logica di dominio e sfruttamento.
Una nuova internazionale dei popoli per la pace e il benessere, basata su cooperazione, giustizia ambientale e autodeterminazione democratica.
La vera pace non si costruisce con le armi, ma con reti di solidarietà e con un modello di sicurezza civile condiviso.
Come suggeriva Chomsky, la libertà dei popoli passa dal controllo collettivo delle risorse e delle decisioni, non dalla dipendenza da superpotenze.
Municipalismo e coerenza morale: Bookchin e la base
Il terzo pilastro è quello che Murray Bookchin chiamava “municipalismo libertario”: una politica che nasce dal basso, dai territori, dalle comunità.
Bookchin sosteneva che la democrazia reale non si costruisce nelle istituzioni centrali, ma nei luoghi in cui le persone si incontrano, discutono, decidono insieme.
È qui che si intrecciano economia popolare, difesa civile nonviolenta e autogoverno locale: tre strumenti che possono liberare le società dal ricatto dei blocchi globali.
Ma tutto questo richiede coerenza morale.
Non si può chiedere libertà senza praticarla, né giustizia senza metterla in atto ogni giorno.
La vera alternativa politica nasce quando il discorso pubblico ritrova una dimensione etica, capace di unire pensiero e vita.
Serve una cultura della responsabilità, capace di guardare oltre le ideologie morte per ritrovare un principio semplice: la libertà è collettiva, o non è.
La Terza Via: la forma più radicale di speranza politica
In questo orizzonte, la Terza Via non è un partito, ma una visione in atto:
una rete di comunità, movimenti, lavoratori e cittadini che scelgono di costruire un’economia del bene comune e una politica della pace.
Non serve aspettare che qualcuno la fondi: esiste già in embrione nelle cooperative sociali, nei gruppi di acquisto solidale, nelle reti di mutualismo, nei municipi che sperimentano forme di autogoverno.
Sono i semi concreti di una democrazia dal basso, i primi laboratori di libertà collettiva.
La nuova internazionale dei popoli che immaginiamo non ha eserciti né confini. Ha valori, pratiche e persone che scelgono la coerenza invece della paura.
Solo così si può unire libertà democratica e giustizia sociale, superando tanto il neoliberismo quanto la deriva autoritaria.
La “Terza Via” non promette salvezza, ma restituisce possibilità.
Ed è forse proprio questa — oggi — la forma più radicale di speranza politica.