Solo la Cina può fermare Israele a Gaza?

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Può la Cina fermare Israele?

Nel pieno dell’assedio alla Striscia di Gaza, mentre le bombe israeliane continuano a colpire case, ospedali e scuole, e i negoziati internazionali sembrano incapaci di fermare i raid su civili e infrastrutture, proviamo a fare una riflessione provocatoria. E se fosse la Cina a intervenire a Gaza?

Un’ipotesi estrema, certo, forse irrealistica. Ma in uno scenario globale dove Israele, sostenuto dagli Stati Uniti, continua a violare impunemente le risoluzioni ONU, l’unico attore capace di imporsi sul piano geopolitico potrebbe essere proprio la Cina, oggi unica potenza in grado di contrastare realmente l’egemonia occidentale.

Truppe cinesi a Gaza

Mandare truppe cinesi nella Striscia di Gaza per liberare gli ostaggi, eliminare Hamas, ricostruire il territorio e mettere Israele nella condizione di non poter più bombardare senza scatenare una crisi con Pechino: è un’utopia o una provocazione strategica?

Quello che è certo è che il piano sionista di trasformare Gaza in una colonia israeliana permanente non verrà fermato né dall’ONU né dall’Europa. E se l’unico modo per indebolire Israele fosse colpire il suo status di potenza impunita, anche per inviare un messaggio preventivo a Washington in vista dell’eventuale crisi a Taiwan?

Il ruolo della Cina nel conflitto tra Israele e Palestina

Immaginare un intervento militare cinese nella Striscia di Gaza per fermare la guerra è una provocazione basata di pura fantasia. La Cina ha una politica estera storicamente improntata alla non ingerenza militare diretta. Pechino privilegia strategie di lungo periodo, mediazione diplomatica e penetrazione economica. Tuttavia, in un mondo multipolare sempre più instabile, anche le provocazioni teoriche possono aprire spazi di riflessione.

Di fronte alla brutalità dei bombardamenti israeliani su Gaza, all’impotenza delle Nazioni Unite e al continuo fallimento dei negoziati di tregua, la domanda diventa: chi può davvero fermare Israele?

Se l’Europa vacilla, se gli Stati Uniti restano il pilastro della protezione israeliana, allora solo un attore forte e indipendente come la Cina potrebbe ribaltare l’equilibrio geopolitico, colpendo simbolicamente uno dei più solidi alleati americani nel Mediterraneo.

L’ipotesi è dunque provocatoria, non tanto per la sua realizzabilità quanto per quello che rivela: la mancanza di una forza globale capace di imporre una linea umanitaria, e l’assuefazione del mondo alla logica secondo cui Israele può agire senza freni. Solo una forza esterna davvero potente – non piegata alla logica atlantista – potrebbe rompere l’assedio.

Il boicottaggio internazionale

Un’altra via ipotizzata per indebolire Israele è quella del boicottaggio economico internazionale. Colpendo l’economia israeliana con embargo, cessazione degli scambi commerciali e isolamento diplomatico, si potrebbero creare malumori interni tali da spingere il governo a riconsiderare le proprie scelte politiche e militari. Ma sebbene l’idea sia sostenuta da molti attivisti in tutto il mondo, la storia recente mostra la sua fragilità.

Nel conflitto tra Russia e Ucraina, un massiccio programma di sanzioni occidentali ha cercato di ottenere esiti simili: collasso economico, pressioni sociali, cambiamento di rotta. Tuttavia, la Russia di Putin ha retto, trovando nuovi alleati e ridefinendo il proprio assetto produttivo. Questo precedente ci insegna che un boicottaggio contro Israele difficilmente produrrebbe risultati rapidi, soprattutto considerando la fortissima alleanza con gli Stati Uniti e gli accordi commerciali con l’Occidente.

Certo, l’idea di una mobilitazione globale che imponga ad Israele di fermare i raid aerei sulla Striscia di Gaza resta una speranza diffusa. Ma senza un fronte compatto e determinato, si riduce a una retorica impotente. Soprattutto in assenza di una reale volontà politica da parte dei grandi blocchi, incluso l’Unione Europea, che spesso minaccia sanzioni senza poi applicarle.

Nel frattempo, la popolazione civile continua a pagare un caro prezzo. E mentre i giacimenti di gas nel mare di Gaza diventano sempre più centrali nel dibattito geopolitico, la crisi umanitaria peggiora. Il rischio è che la difesa degli interessi energetici prevalga sulla difesa della vita.

Giacimenti di gas a Gaza

Dietro le bombe su Gaza, il blocco umanitario e i bombardamenti quotidiani sulla Striscia di Gaza, si nasconde una questione raramente discussa nei media mainstream: la presenza di giacimenti di gas naturale al largo delle coste palestinesi. Una risorsa strategica che potrebbe cambiare gli equilibri economici e politici dell’intera regione. E non è un caso che, negli ultimi anni, alcune compagnie energetiche abbiano cominciato a interessarsene sempre più da vicino.

Nel 2023, Eni, il colosso energetico italiano, ha ottenuto da Israele una licenza di esplorazione e futura estrazione di gas in un’area marittima che si sovrappone al territorio palestinese. Una concessione rilasciata unilateralmente da Tel Aviv, ignorando qualsiasi sovranità o diritto economico palestinese, e che fa emergere un ulteriore livello di colonialismo energetico. Se la Striscia di Gaza venisse svuotata della sua popolazione e sottoposta a pieno controllo militare israeliano, quei giacimenti di gas potrebbero essere sfruttati senza opposizione.

Questo potrebbe spiegare anche la timidezza dell’Italia nell’assumere posizioni chiare contro le violazioni dei diritti umani a Gaza. In un quadro di relazioni economiche e diplomatiche così intrecciate, le scelte energetiche diventano scelte politiche. Se dovesse davvero crescere una mobilitazione internazionale in favore del boicottaggio economico o della fine dell’occupazione, tra i primi a pagarne il prezzo potrebbe esserci proprio Eni. Da qui, forse, il silenzio imbarazzato di molti rappresentanti politici italiani.

In questi tempi in cui le guerre si combattono anche per l’accesso alle risorse naturali, il caso dei giacimenti di gas a Gaza ci ricorda che la libertà di un popolo può essere sacrificata per un giacimento che potrebbe valere circa 500 miliardi.

Hamas, l’alibi perfetto per l’occupazione della Striscia di Gaza

Nel conflitto in corso tra Israele e Hamas, l’opinione pubblica globale è costantemente polarizzata. Tuttavia, per comprendere davvero la strategia di lungo periodo dello Stato israeliano, è necessario superare le letture semplicistiche e propagandistiche. La presenza di Hamas nella Striscia di Gaza, con i suoi raid e i suoi attacchi armati, è diventata da anni l’alibi perfetto per giustificare qualunque intervento militare israeliano: dai bombardamenti indiscriminati sui civili, al blocco alimentare e sanitario, fino al piano – sempre più esplicito – di occupazione permanente di Gaza.

Israele ha sistematicamente costruito una narrazione per cui la distruzione di Hamas diventa sinonimo di sicurezza nazionale. Ma la realtà è diversa: la sopravvivenza politica e militare di Hamas ha fatto comodo proprio al governo israeliano, permettendogli di evitare ogni trattativa con la leadership palestinese moderata e di proseguire con la colonizzazione dei territori occupati. Non a caso, negli ultimi anni, sono trapelati dossier che dimostrano come Israele abbia indirettamente favorito l’ascesa di Hamas, anche per indebolire l’OLP e ogni tentativo di dialogo unitario da parte palestinese.

In questo senso, il conflitto armato con Hamas serve anche a mascherare altri obiettivi: il controllo delle risorse, l’espulsione graduale della popolazione civile, e il disegno di trasformare Gaza in una zona cuscinetto militarizzata. Ogni raid, ogni missile, ogni ostaggio diventano parte di una narrativa utile a legittimare il dominio israeliano, mentre la comunità internazionale si ferma al dibattito sterile su chi abbia “iniziato per primo”.

Ma chi paga tutto questo sono i civili. Gli abitanti di Gaza, già colpiti da anni di embargo e bombardamenti, si trovano ora al centro di una strategia geopolitica che li usa come pedine di un gioco sporco. Hamas, con tutte le sue responsabilità, è diventato così lo strumento perfetto per Israele per evitare ogni negoziato reale e spingere verso una soluzione militare totale.

Chi può fermare Israele a Gaza?

La domanda resta sospesa: chi può fermare Israele a Gaza? L’intervento militare cinese a Gaza, sebbene irrealistico e provocatorio, funziona come paradosso utile a mostrare quanto sia debole il sistema internazionale. Il presunto ruolo di una potenza globale nel conflitto israelo-palestinese – come la Cina – farebbe da deterrente, togliendo ogni alibi a Israele per l’occupazione e interrompendo l’assedio umanitario nella Striscia di Gaza.

Nel frattempo, il fallimento dell’ONU a Gaza è evidente. La diplomazia internazionale sembra impotente, mentre le bombe continuano a cadere sui civili. La crisi umanitaria nella Striscia di Gaza e le sue conseguenze si aggravano di giorno in giorno, senza che si intraveda una reale prospettiva di pace. I ripetuti richiami ai negoziati per la tregua a Gaza sembrano più un rito che una strategia.

Il peso della geopolitica del gas a Gaza è sempre più evidente. I giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale sono ormai parte integrante del conflitto. L’Eni ha ottenuto licenze da Israele per l’esplorazione e l’estrazione di gas in acque che, secondo il diritto internazionale, sarebbero in gran parte territorio palestinese. Questo legame diretto tra interessi energetici israeliani e palestinesi, unito al colonialismo energetico a Gaza, contribuisce a spiegare anche la prudenza italiana: le relazioni Italia-Israele sul gas sono oggi troppo forti per permettersi prese di posizione nette.

Nel dibattito internazionale, alcuni tornano a proporre la soluzione dei due Stati per tutelare Gaza e la Palestina. Ma nel contesto attuale, appare più come uno slogan che come un progetto praticabile. Eppure, senza un’alternativa condivisa, resta l’unico riferimento per chi chiede il rispetto del diritto internazionale.

Infine, resta aperto il tema dell’efficacia del boicottaggio economico contro Israele. Dopo il parziale insuccesso delle sanzioni contro la Russia, molti temono che questa strada non porti risultati. Ma potrebbe essere comunque uno degli strumenti capaci di mettere in crisi il consenso interno israeliano, soprattutto se unito a una pressione globale.

Se il conflitto dovesse estendersi – ad esempio con una crisi a Taiwan – gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo orientale potrebbero essere stravolti. E in quel contesto, il ruolo della Cina nel conflitto Israele-Palestina potrebbe passare dall’ipotesi alla realtà.

Ma per ora, tutto resta sospeso. Gaza brucia, e la politica mondiale guarda – o volge lo sguardo altrove.

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